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Variante inglese del Covid: cos’è e quali sono i sintomi

Variante inglese Covid: cosa cambia, perché è più pericolosa, i sintomi

La variante inglese del coronavirus spaventa in Italia, con il rischio di un aumento dei contagi da Covid. La variante inglese di Sars-CoV-2 – identificata con le sigle 20B/501YD1 oppure B.1.1.7- secondo gli esperti è sia “più contagiosa che letale“. “Al momento – ricorda l’Istituto superiore di Sanità – sono tre le varianti che vengono attentamente monitorate e che prendono il nome dal luogo dove sono state osservate per la prima volta. In tutti e tre i casi il virus presenta delle mutazioni sulla cosiddetta proteina ‘Spike’, che è quella con cui il virus ‘si attacca’ alla cellula”. Oltre a quella inglese, ci sono anche la brasiliana e la sudafricana.

Quasi 1 contagio su 5 (il 17.8 per cento) di quelli registrati in Italia all’inizio di febbraio è da ricondurre alla variante inglese del coronavirus. Il risultato dell’indagine di prevalenza condotta dall’Istituto Superiore di Sanità per dare una misura della presenza della più recente versione di Sars-CoV-2 nel nostro Paese vale come una conferma. Anche in Italia – così come nel resto d’Europa: in Francia la prevalenza è del 20-25 per cento, in Germania sopra il 20 per cento – la variante inglese del virus sta prendendo piede. Cosa sappiamo di questa epidemia nella pandemia? Quali rischi ci sono per la popolazione? Perché molti esperti, negli ultimi giorni, hanno invocato misure più restrittive?


Sommario


Cos’è la variante inglese e cosa sappiamo finora?

La variante VOC 202012/01, lineage B.1.1.7, è definita per la presenza di numerose mutazioni nella proteina Spike del virus e da mutazioni in altre regioni del genoma virale. Questa versione è stata identificata per la prima volta nelle regioni sud-orientali del Regno Unito a dicembre, in concomitanza con un rapido aumento nel numero di nuovi casi confermati di infezione da Sars-CoV-2. In realtà, come documentato da alcuni studi retrospettivi, la variante B.1.1.7 era già presente in Europa a partire dallo scorso mese di settembre. La sua diffusione è piuttosto rapida, come dimostra il dato secondo cui a oggi sono oltre 80 le nazioni ad aver notificato almeno un caso di infezione provocato dalla variante «inglese» del coronavirus.

Al dato statistico, si abbina anche l’evidenza di diversi studi scientifici. Con ogni probabilità, dunque, questa nuova versione del coronavirus è più contagiosa. Non è certo, invece, che sia più aggressiva, sebbene alcune indagini abbiano evidenziato la comparsa della Covid-19 in forma severa in alcuni dei pazienti contagiati. Non è invece in discussione l’efficacia dei vaccini. Al di là di quello con cui si viene immunizzati, tutte le evidenze al momento disponibili hanno confermato la risposta immunitaria anche in caso di contagio con la variante «inglese».

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Quando è comparsa per la prima volta?

La variante inglese è comparsa in Inghilterra a settembre 2020 e solamente a metà dicembre è stata resa nota. La mutazione rilevata in questa variante rende il virus più contagioso dal 30% al 50% rispetto ad altre varianti circolanti (come quella brasiliana o sudafricana), e potrebbe avere una mortalità superiore dal 30% al 70% – fonte New and Emerging Respiratory Virus Threats Advisory Group (NEVRTAG).

Finora, la variante inglese è stata identificata in 80 Paesi, compresa l’Italia. La sua diffusione nazionale è stata registrata nel 17,8% dei casi, ossia 1 contagio su 5 è positivo alla variante inglese, e probabilmente questa emergenza è destinata a diventare quella prevalente nei prossimi mesi.

Dai primi studi, tuttavia, emerge che i vaccini anti-Covid sono efficaci contro questa particolare variante, insieme alle usuali misure di contenimento (mascherine, igiene delle mani e distanziamento sociale.

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La mutazione rende il virus più contagioso?

La mutazione rilevata nella posizione 501 della proteina Spike rende il virus più contagioso dal 30% al 50% rispetto ad “altre varianti non preoccupanti” in circolazione e potrebbe avere una mortalità superiore dal 30% al 70%. E’ quanto indica il documento redatto dal New and Emerging Respiratory Virus Threats Advisory Group (NEVRTAG), il gruppo di esperti britannico che assiste il governo nella gestione della pandemia.

Aumenta anche la mortalità?

Analizzando i dati di 12 studi indipendenti condotti nel Regno Unito sulla variante inglese, indicata con la sigla B.1.1.7, il gruppo di esperti rileva che i dati non sono definitivi e dovranno essere ulteriormente analizzati poiché fra i diversi studi esistono differenze significative. In ogni caso, osservano, “queste analisi indicano che probabilmente la variante B.1.1.7 è associata a un aumento del rischio di ospedalizzazione e morte rispetto all’infezione da coronavirus non dovuta alla variante B.1.1. 7”. Ad oggi non è nota la causa della presunta letalità superiore della variante inglese, ma tra le ipotesi c’è quella di una maggiore carica virale nei pazienti infettati.

Variante inglese in Italia: qual è la situazione?

Vista la diffusione in Europa, l’Istituto Superiore di Sanità ha voluto scattare un’istantanea dei contagi in Italia. L’indagine è stata effettuata chiedendo ai laboratori delle Regioni e Province autonome di selezionare dei sottocampioni di casi positivi e di sequenziare il genoma del virus, secondo le modalità descritte nella circolare del ministero della Salute dell’8 febbraio.

I campioni analizzati sono stati in totale 852, provenienti da 16 diverse aree del Paese. «L’indagine ci dice che nel nostro Paese, così come nel resto d’Europa, c’è una circolazione sostenuta della variante, che probabilmente è destinata a diventare quella prevalente nei prossimi mesi», si legge nel documento. Nello specifico, le Regioni caratterizzate da una maggiore circolazione della variante «inglese» sono risultate l’Abruzzo (tra Pescara e Chieti fino al 58 per cento dei casi, seguite da Teramo e L’Aquila con il 20 per cento), la Lombardia (30), la Campania (25), il Veneto (20) e il Lazio (18). Da qui la necessità di un monitoraggio stringente, che «consentirebbe, assieme al rafforzamento delle misure di mitigazione, di contenere gli effetti della nuova variante, mentre si prosegue con le vaccinazioni», fa sapere l’Istituto Superiore di Sanità.

Cosa sapere se si è avuta la malattia o se si è vaccinati?

La variante inglese, pur avendo caratteristiche differenti dal virus iniziale, viene riconosciuta dagli anticorpi generati dalla malattia o dalla vaccinazione. Ciò vuol dire che quando il corpo viene in contatto con questa nuova versione di Sars-Cov-2 – o con una porzione della proteina spike, in caso di profilassi vaccinale – il sistema immunitario produce anticorpi differenti in grado di aggredire la proteina Spike. Per questo motivo, finora, la variante inglese non ha destato preoccupazioni relativamente al rischio di una nuova infezione grave nelle persone che hanno già superato la Covid-19 o in coloro che hanno completato il ciclo vaccinale. L’evidenza più solida, in questo caso, proviene da Israele. L’efficacia della vaccinazione sui numeri della pandemia non è stata intaccata, sebbene la variante sia presente in maniera predominante.

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Quanto è diffusa in Italia?

La variante inglese è ormai diffusa nella maggior parte del territorio italiano, almeno nell’88% delle regioni secondo i risultati dell’indagine rapida condotta il 4 e 5 febbraio da Istituto Superiore di Sanità (Iss) e ministero della Salute.

In quali Regioni la variante è più diffusa?

In Italia si sono sviluppati alcuni focolai locali soprattutto in Abruzzo (oltre il 50% di prevalenza), Lombardia (si stima rappresenti il 30% dei positivi), in Veneto (il 20% dei tamponi), in Puglia (il 15,5% dei casi), in Umbria e Molise. E anche in Regioni ma con casi più sporadici.

I sintomi sono gli stessi?

Sì, i sintomi sono gli stessi del Covid-19 senza mutazioni

I vaccini sono efficaci contro le varianti?

Dai primi studi infatti emerge che i vaccini Pfizer, Moderna e Astrazeneca funzionino contro questa particolare variante.

Perché la variante inglese è più contagiosa?

La variante inglese B.1.1.7 è più contagiosa, si è calcolato di almeno il 50 per cento in più, e per questo motivo viene tenuta sotto stretta osservazione: perché capace di far impennare la curva della conta dei casi positivi in poche settimane. Adesso si scopre che potrebbe portare a un’infezione di durata maggiore, cosa che potrebbe spiegare il motivo della sua maggior trasmissibilità.

Uno studio dell’Università di Harvard ha misurato le infezioni e la loro durata in giorni e intensità di spargimento virale durante la fase acuta e ha confrontato la variante inglese con il lignaggio «normale». Hanno valutato i test PCR (tamponi) eseguiti in una coorte di 65 individui infetti da SARS-CoV-2, sottoposti a test di sorveglianza quotidiana, di cui sette soggetti infetti con B.1.1.7. Per gli individui infettati da B.1.1.7, la durata media della fase di proliferazione era di 5,3 giorni, la durata media della fase di eliminazione era di 8,0 giorni e la durata media complessiva dell’infezione (proliferazione più eliminazione) è stata di 13,3 giorni (con estremo superiore che arrivava a 16,5). Nel caso del ceppo originario di SARS-CoV-2 la fase di proliferazione media era di 2,0 giorni, quella di eliminazione media di 6,2 giorni e la durata media dell’infezione di 8,2 giorni, con la punta estrema superiore di 9,7 (si veda grafico sotto, ndr). La concentrazione massima virale invece era simile: per B.1.1.7 era 19,0 Ct (“Cycle threshold” – ciclo-soglia, ndr), rispetto ai 20,2 Ct del ceppo originario.

(fonte: Harvard Edu)
Le implicazioni sulla quarantena

Le prime ipotesi erano che la variante inglese fosse più trasmissibile per la maggior carica virale che induce negli infetti, invece potrebbe trattarsi di maggiore durata dell’infezione. Questo studio non è ancora pubblicato nè revisionato e su numeri piccoli, ma, se il dato fosse confermato, sarebbe clamoroso per le implicazioni pratiche e la gestione della malattia da Covid-19. Ogni applicazione di quarantena nel mondo si basa sul fatto che la contagiosità non ha mai superato i 14 giorni, con una media molto inferiore. Per questo l’isolamento è passato da 14 giorni a 10 giorni e in alcuni Paesi a 7 (dipende dalle leggi nazionali). Se l’infezione da B.1.1.7 fosse così lunga «da smaltire», significa che le persone contagiate, al termine del periodo di isolamento, potrebbero essere ancora in grado di contagiare e quindi al rientro in famiglia, scuola o lavoro, potenziali positivi ancora infettivi.

Rivedere le regole

In Italia isolamento e quarantena terminano dopo 10 giorni con test molecolare con risultato negativo. In caso di contatti stretti asintomatici però la quarantena può durare 14 giorni ed essere interrotta senza conferma da tampone (QUI le regole del ministero). La Francia ha dimezzato da tempo da quattordici a sette giorni la durata dell’isolamento per chi è risultato positivo al coronavirus e per chi è entrato in contatto con un soggetto infetto.

A luglio negli Stati Uniti i Cdc (Centres for Disease and Prevention) hanno optato per una quarantena di 10 giorni dall’inizio dei sintomi, mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda (in assenza di tampone) almeno tre giorni senza sintomi e, per gli asintomatici, un isolamento precauzionale di dieci giorni dopo il tampone positivo. Se per la variante inglese queste durate fossero troppo brevi, sarebbe necessario rivedere tutti i criteri per il rientro in società dellepersone positive e dei loro contatti.

Variante inglese: mantenere alta la guardia

Notizie in parte rassicuranti, dunque. Ma non per questo si può abbassare la guardia. Monitorare l’evoluzione dei virus è fondamentale, al fine di compiere una corretta prevenzione. Anche in chiave vaccinale, visto che a fronte di una variazione significativa della proteina Spike, sarebbe necessario modificare la composizione dei vaccini (così come accade ogni anno con il vaccino antinfluenzale). Per questo l’Istituto Superiore di Sanità ha fatto sapere di essere pronto a ripetere l’indagine, per verificare la velocità di diffusione della variante «inglese» e l’eventuale comparsa di nuove forme del virus. Anche il Centro Europeo per il Controllo delle Malattie (Ecdc), partendo da quanto accaduto in Gran Bretagna tra dicembre e gennaio, invita a tenere alta la guardia: «Nei Paesi in cui la variante B.1.1.7 circola di più, si registra un aumento dei contagi. E, in alcuni casi, forme di malattia più severa. Ciò sta comportando un aumento dei ricoveri e della mortalità, legata anche al sovraccarico dei sistemi sanitari».

Francesco Piccolo

Giornalista professionista, direttore del network L'Occhio che comprende le redazioni di Salerno, Napoli, Benevento, Caserta ed Avellino. Direttore anche di TuttoCalcioNews e di Occhio alla Sicurezza.

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