Cronaca

La storia di Giovanni Brusca: il “porco” condannato per centinaia di omicidi tra cui quello di un bambino

Chi è Giovanni Brusca, quali sono i suoi crimini reati e a quante vittime è legato? Il suo nome è riemerso nelle scorse ore, in seguito alla scarcerazione dopo venticinque anni di detenzione. Nato a San Giuseppe Jato, Palermo, il 20 febbraio del 1957, in siciliano soprannominato u verru, ovvero il porco, oppure lo scannacristiani per la sua ferocia. È un mafioso e collaboratore di giustizia italiano, in passato membro di rilievo di Cosa Nostra.
Capo del mandamento di San Giuseppe Jato ed esponente di spicco dei Corleonesi, è stato condannato per oltre un centinaio di omicidi, tra cui quello tristemente celebre del piccolo Giuseppe Di Matteo (figlio del pentito Santino Di Matteo) strangolato e sciolto nell’acido, e per la strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e i tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, nella quale Brusca ricoprì un ruolo fondamentale, in quanto fu l’uomo che materialmente spinse il tasto del radiocomando a distanza che fece esplodere il tritolo piazzato in un canale di scolo sotto l’autostrada.


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Chi è Giovanni Brusca: crimini, reati e vittime del porco

Figlio del boss Bernardo Brusca (1929-2000) e fratello di Emanuele ed Enzo Salvatore, tutti “uomini d’onore” della Famiglia di San Giuseppe Jato, entrò nella cosca del padre nel 1976 all’età di 19 anni, dopo aver commesso un omicidio per i Corleonesi capeggiati da Salvatore Riina ed infatti il suo “padrino” nella cerimonia d’iniziazione (la cosiddetta “punciuta“) fu proprio Riina.

Brusca faceva parte di un gruppo di fuoco formato da killer spietati che agivano sotto le direttive di Totò Riina, di cui facevano parte anche Antonino Madonia, Giuseppe Giacomo Gambino, Pino Greco detto Scarpuzzedda, Mario Prestifilippo, Filippo Marchese, Giuseppe Lucchese, Giovanbattista Pullarà, Vincenzo Puccio e Calogero Ganci: in tale veste infatti nel 1977 partecipò all’omicidio del colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo e nel 1983 si occupò di preparare, insieme ad Antonino Madonia, l’autobomba utilizzata per uccidere il giudice Rocco Chinnici e gli agenti di scorta.

Il capitano dei carabinieri Mario D’Aleo, comandante della Compagnia di Monreale, intuì lo spessore criminale di Giovanni Brusca ed infatti lo arrestò per il danneggiamento di un automezzo nonché sottopose a pressanti indagini il padre Bernardo: la vendetta dei Brusca arrivò il 13 giugno 1983, quando il capitano D’Aleo venne ucciso in un agguato insieme ai colleghi Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.

Nel 1984 Brusca venne colpito da un mandato di cattura per associazione mafiosa a seguito delle dichiarazioni di Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno e venne inviato al soggiorno obbligato a Linosa; a seguito dell’arresto del padre Bernardo avvenuto l’anno successivo, il reggente del mandamento di San Giuseppe Jato divenne Baldassare Di Maggio. Nel 1991 Giovanni Brusca si diede alla latitanza, riprendendo le redini della Famiglia di San Giuseppe Jato e mettendo da parte Di Maggio, che fuggì per timore di essere ucciso prima all’estero e poi in Piemonte, dove venne arrestato e iniziò a collaborare con la giustizia, facendo arrestare Salvatore Riina.


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Il bambino sciolto nell’acido e l’arresto di Giovanni Brusca

Ai primi di gennaio 1996, seguendo le indicazioni del collaboratore di giustizia Tony Calvaruso (ex braccio destro di Leoluca Bagarella), gli inquirenti arrivarono ad una villa a Borgo Molara, dove Brusca si nascondeva insieme alla compagna Rosaria Cristiano e al figlioletto Davide di 5 anni, che però riuscirono a fuggire prima dell’irruzione delle forze dell’ordine. Nel febbraio successivo, due fedelissimi di Brusca, Giuseppe Monticciolo Vincenzo Chiodo, vennero arrestati e decisero subito di collaborare con la giustizia: fecero infatti scoprire il casolare-bunker in contrada GiambascioSan Giuseppe Jato, dove un mese prima era stato ucciso e sciolto nell’acido il piccolo Giuseppe Di Matteo e lì venne trovato un vero e proprio arsenale a disposizione di Brusca (dieci missili, un lanciamissili, 10 bazooka, 50 kalashnikov, 400 kg di esplosivo, 10 bombe anticarro, un lanciagranate, 7 fucili mitragliatori, 35 pistole, giubbotti antiproiettili ed ordigni esplosivi già confezionati).

Monticciolo e Chiodo diedero indicazioni utili sui possibili nascondigli di Brusca, cui seguì il ritrovamento di un’agenda con codici e numeri di telefono trovata addosso al latitante Salvatore Cucuzza, reggente del mandamento di Porta Nuova: dopo vari pedinamenti e intercettazioni basati su tali informazioni, Brusca fu infine arrestato il 20 maggio 1996 in via Papillon numero 34, contrada Cannatello / Fiumenaro (lussuosissima frazione balneare di Agrigento), dove un fiancheggiatore gli aveva messo a disposizione un villino, in cui abitava anche il fratello Enzo Salvatore insieme alla moglie. L’operazione venne coordinata dal questore di Palermo Arnaldo La Barbera e condotta dagli uomini della Squadra Mobile palermitana guidati dal commissario Luigi Savina.

Nell’operazione parteciparono più di 400 uomini e 40 mezzi speciali della polizia,i furgoni principali erano stati nascosti uno a 200 metri dalla traversa e un altro ad 1 km e mezzo . Per identificare esattamente il covo in cui si trovava Brusca, in quanto nella via vi erano diverse villette una accanto all’altra, si adottò lo stratagemma di utilizzare una motocicletta smarmitatta guidata da un poliziotto in borghese il quale dava delle forti accelerate al motore portandosi di fronte ai cancelli delle ultime tre ville in modo che il rombo del motore fosse percepibile dall’audio di “fondo” nell’intercettazione telefonica sull’utenza di Brusca: (avevano il suo ho telefonico e una sola possibilità) via radio “guidarono” il collega in moto in quel segmento di via, e ascoltando il massimo percepibile del rumore del motore, capirono che quello era il punto esatto, cioè quando il rumore che aumentava sempre piu tocco l’apice, la moto era davanti il cancello, per poi iniziare a diminuire man mano che la moto si allontanava, diedero il via al blitz con la frase d’ordine, “ddrocu è“.

A irrompere dalla porta furono contemporaneamente 80 uomini e altri 80 dalla finestra che dava nella stanza dove stavano mangiando e da dove Brusca di solito osservava fuori. Alcuni abitanti locali della via raccontano che gli agenti, non riuscendo a capire perfettamente qual era l’esatta ubicazione della casa di Brusca, irruppero contemporaneamente nelle due villette a destra e a sinistra (oltre che a quella centrale dove poi fu scovato), onde evitare appunto uno sbaglio che avrebbe compromesso l’operazione e potenzialmente favorito la fuga. La villetta era sorvegliata da mesi da un secondo piano di una villetta in una via parallela. Era spesso avvistato dai residenti e una volta si uní anche ad una partita di calcio organizzata dai ragazzi della via in un terreno vuoto li vicino, dove si infortuno. Ironia della sorte, al momento dell’arresto, i fratelli Brusca stavano guardando il film Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara trasmesso da Canale 5 e vennero ammanettati dall’ispettore Luciano Traina, fratello di Claudio, uno degli agenti di scorta uccisi nella strage di via d’Amelio.

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