Alessia Pifferi, condannata all’ergastolo per aver abbandonato a casa per cinque giorni e mezzo la piccola Diana, morta “di stenti e disidratazione”, è stata animata da un “futile ed egoistico movente”: quello di “regalarsi un proprio spazio di autonomia, nella specie un lungo fine-settimana con il proprio compagno”. Lo si legge nelle motivazioni della sentenza emessa il 13 maggio dalla Corte d’Assise di Milano, secondo cui la donna scelse il weekend “rispetto al prioritario diritto/dovere di accudire la figlioletta”.
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Così facendo, secondo i giudici, Alessia Pifferi ha commesso un reato di “elevatissima gravità, non solo giuridica, ma anche umana e sociale”: con il suo comportamento ha “ucciso”, anche se non intenzionalmente, la bimba. Che venne trovata senza vita il 20 luglio 2022 in un lettino da campeggio con a fianco solo un biberon e una bottiglietta d’acqua vuoti. Oltre a una boccetta di En, un tranquillante che, è risultato, Alessia Pifferi le avrebbe dato nelle precedenti settimane e in piccole dosi.
Nelle 53 pagine firmate da Alessandro Santangelo, il giudice estensore, e dal presidente della Corte, Ilio Mannucci Pacini, oltre alla ricostruzione del ritrovamento del corpo senza vita della bimba, si riporta l’esito della perizia psichiatrica in cui si sostiene che la donna era capace di intendere e di volere. Infatti, si osserva, “per sua stessa ammissione aveva certamente coscienza e volontà del disvalore della propria condotta di abbandono e della pericolosità per Diana” e, quindi, è ragionevolmente certo che avesse previsto i rischi che correva la piccola lasciata senza nessuno che la accudisse.
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Per la Corte, inoltre, “non può nemmeno sottacersi” che la 36enne, abbandonando la figlia anche nei fine settimana precedenti, si era “certamente” resa conto “delle precarie condizioni” in cui la cresceva. Tanto che nel frigorifero e nella dispensa di casa non sono stati trovati “alimenti per bambini”. Per tali e altre ragioni, “non v’è dubbio che lasciare Diana da sola in casa, con la consapevolezza di esporla anche al rischio di morire di stenti e disidratazione, per regalarsi un proprio spazio di autonomia, nella specie un lungo fine-settimana con il proprio compagno, non può che inverare la circostanza aggravante dei futili motivi” che si aggiunge a quella dettata dal rapporto madre e figlia.
In più, “tenuto conto dell’elevatissima gravità, non solo giuridica, ma anche umana e sociale, del fatto reato in contestazione e del futile ed egoistico movente” non è stato possibile concedere alla Pifferi le attenuanti generiche, per via anche del comportamento processuale “valutato negativamente” in quanto caratterizzato da “deresponsabilizzazione”: ha accampato, per giustificarsi, “circostanze oggettivamente e scientemente false”, scaricando la “responsabilità morale” della tragedia sul compagno. Segno, questo, di una “carente rielaborazione critica del proprio agito omicidiario”.