Rita Atria era una ragazza siciliana di Partanna (Trapani) che a 17 anni diventò testimone di giustizia, seguendo l’esempio della cognata Piera Aiello. Apparteneva a una famiglia mafiosa; suo padre e suo fratello erano rimasti uccisi per una guerra di mafia. Così iniziò a collaborare con il giudice Paolo Borsellino, che per lei diventerà un secondo padre. In lui, Rita aveva trovato un punto di riferimento fondamentale per la sua scelta di sfidare la mafia del suo paese. Ogni incontro era fatto di abbracci, baci, comprensione e sostegno umano. Rita gli parlava spesso della madre, che non voleva capire la sua scelta di collaborare con la giustizia. La morte del giudice Borsellino, il 19 luglio 1992, nella strage di via d’Amelio, a Palermo, sconvolse anche la vita di Rita: a una settimana esatta dalla morte di Paolo, il 26 luglio 1992, Rita si lanciò nel vuoto dalla casa dove viveva, al settimo piano di viale Amelia 23, a Roma.
Chi era Rita Atria
Rita Atria è stata una giovane studentessa, testimone di giustizia, morta suicida a seguito della morte di Paolo Borsellino e per questo motivo considerata una vittima innocente di mafia.
Biografia
Figlia del boss mafioso Vito Atria, ucciso il 18 novembre 1985 a Partanna per un regolamento di conti, Rita decise di collaborare con la polizia dopo l’omicidio di suo fratello Nicola, avvenuto il 24 giugno 1991, e dopo la decisione della cognata Piera Aiello di denunciare gli assassini alla polizia. La collaborazione della cognata aveva messo fine alla sua relazione con un giovane del paese, Calogero, che riteneva disonorevole restare il fidanzato di una ragazza con una parente che aveva deciso di rompere il muro dell’omertà.
Rimasta sola, con la madre Giovanna che continuamente lamentava l’onore perduto della famiglia, Rita, nel novembre 1991, a soli 17 anni, incontrò il giudice Paolo Borsellino (all’epoca Procuratore a Marsala), a cui si legò come un padre. Le rivelazioni di Rita e di sua cognata Piera permisero l’arresto di svariati appartenenti alle cosche di Partanna, Sciacca e Marsala, oltre ad avviare un’indagine sull’onorevole DC Vincenzino Culicchia, trentennale sindaco della città natale di Rita.
Invano, Borsellino tentò più di una volta di far sì che la madre accettasse la scelta della figlia, ma fu inutile. Trasferita a Roma, in località segreta e sotto falso nome, Rita viveva una vita completamente isolata dal resto del mondo.
La morte di Borsellino e il suicidio
Dopo aver appreso la notizia della morte del suo “secondo padre”, Rita decise di togliersi la vita per il dolore: il 26 luglio 1992 si lanciò dal settimo piano di un palazzo in viale Amelia 23, a Roma. Lasciò scritto sul suo diario:
Ora che è morto Borsellino, nessuno può capire che vuoto ha lasciato nella mia vita. Tutti hanno paura ma io l’unica cosa di cui ho paura è che lo Stato mafioso vincerà e quei poveri scemi che combattono contro i mulini a vento saranno uccisi. Prima di combattere la mafia devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici, la mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarsi. Borsellino, sei morto per ciò in cui credevi, ma io senza di te sono morta.
I funerali a Partanna
Il giorno dei funerali non partecipò alcun cittadino di Partanna, nemmeno la madre, che si era lamentata di quella “fimmina lingua longa e amica degli sbirri” che aveva disonorato la famiglia, tanto da minacciarla di morte più volte. Anzi, fu proprio la madre a distruggere la lapide della figlia al cimitero a martellate.
Il tema di maturità
Particolarmente famoso è il tema di maturità di Rita Atria, scritto il 5 giugno 1992, ad Erice. Quell’anno tra le tracce ci fu anche quella che riguardava la morte del giudice Giovanni Falcone e Rita decise di svolgerlo così:
La morte di una qualsiasi altra persona sarebbe apparsa scontata davanti ai nostri occhi, saremmo rimasti quasi impassibili davanti a quel fenomeno naturale che è la morte del giudice Falcone, per chi aveva riposto in lui fiducia, speranza, la speranza di un mondo nuovo, pulito, onesto, era un esempio di grandissimo coraggio, un esempio da seguire. Con lui è morta l’immagine dell’uomo che combatteva con armi lecite contro chi ti colpisce alle spalle, ti pugnala e ne è fiero. Mi chiedo per quanto tempo ancora si parlerà della sua morte, forse un mese, un anno, ma in tutto questo tempo solo pochi avranno la forza di continuare a lottare. Giudici, magistrati, collaboratori della giustizia, pentiti di mafia, oggi più che mai hanno paura, perché sentono dentro di essi che nessuno potrà proteggerli, nessuno se parlano troppo potrà salvarli da qualcosa che chiamano mafia.
Ma in verità dovranno proteggersi unicamente dai loro amici: onorevoli, avvocati, magistrati, uomini e donne che agli occhi altrui hanno un’immagine di alto prestigio sociale e che mai nessuno riuscirà a smascherare. Ascoltiamo, vediamo, facciamo ciò che ci comandano, alcuni per soldi, altri per paura, magari perché tuo padre volgarmente parlando è un boss e tu come lui sarai il capo di una grande organizzazione, il capo di uomini che basterà che tu schiocchi un dito e faranno ciò che vorrai. Ti serviranno, ti aiuteranno a fare soldi senza tener conto di nulla e di niente, non esiste in loro cuore, e tanto meno anima. La loro vera madre è la mafia, un modo di essere comprensibile a pochi.
Ecco, con la morte di Falcone quegli uomini ci hanno voluto dire che loro vinceranno sempre, che sono i più forti, che hanno il potere di uccidere chiunque. Un segnale che è arrivato frastornante e pauroso. I primi effetti si stanno facendo vedere immediatamente, i primi pentiti ritireranno le loro dichiarazioni, c’è chi ha paura come Contorno, che accusa la giustizia di dargli poca protezione. Ma cosa possono fare ministri, polizia, carabinieri? Se domandi protezione, te la danno, ma ti accorgi che non hanno mezzi per rassicurare la tua incolumità, manca personale, mancano macchine blindate, mancano le leggi che ti assicurino che nessuno scoprirà dove sei. Non possono darti un’altra identità, scappi dalla mafia che ha tutto ciò che vuole, per rifugiarti nella giustizia che non ha le armi per lottare.
L’unica speranza è non arrendersi mai. Finché giudici come Falcone, Paolo Borsellino e tanti come loro vivranno, non bisogna arrendersi mai, e la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti. L’unico sistema per eliminare tale piaga è rendere coscienti i ragazzi che vivono tra la mafia che al di fuori c’è un altro mondo fatto di cose semplici, ma belle, di purezza, un mondo dove sei trattato per ciò che sei, non perché sei figlio di questa o di quella persona, o perché hai pagato un pizzo per farti fare quel favore. Forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo.