Economia

L’Europa da superiore a subalterna: la paradossale involuzione economica e le insidie del Green Deal

Domenico De Rosa
Domenico De Rosa
Domenico De Rosa

di Domenico De Rosa

Nel 2008, un anno segnato dalla crisi finanziaria globale, l’Europa vantava un primato economico che sembrava consolidato: il PIL dell’Unione Europea superava quello degli Stati Uniti. Un risultato che rispecchiava non solo le dimensioni e la diversità del mercato europeo, ma anche un sistema di welfare e una capacità di gestione macroeconomica che, pur con le sue difficoltà, sembravano più resilienti rispetto alla volatilità degli Stati Uniti. L’economia europea appariva solida, sostenibile e al passo con un mondo in rapida evoluzione, con un’integrazione crescente tra le sue economie e un’attenzione, seppur tardiva, ai temi ecologici e sociali.

Tuttavia, dieci anni dopo, la situazione appare radicalmente cambiata. Oggi l’Europa non solo è indietro rispetto agli Stati Uniti in termini di crescita economica, ma la sua posizione di leadership economica si è progressivamente ridotta. Questo cambiamento non è solo il risultato della crisi economica del 2008, ma anche della risposta poco agile che il continente ha avuto alla globalizzazione, alla digitalizzazione e, in particolare, alla cosiddetta sfida climatica.

Il Green Deal europeo, utopistica iniziativa che mira a rendere l’Europa il primo continente “climaticamente neutro” entro il 2050, ha catalizzato un forte movimento verso la sostenibilità. Ma, proprio come previsto da molti osservatori, le implicazioni economiche di queste politiche si sono rivelate complesse e potenzialmente distruttive per interi settori industriali strategici, come quello automobilistico, che ha storicamente rappresentato una colonna portante dell’economia europea.

Il Green Deal si distingue per la sua impostazione “top-down”, cioè per l’imposizione di obiettivi stringenti attraverso regolamenti e leggi che non lasciano alcuna flessibilità agli attori economici. Sebbene l’Europa sia stata pioniera nelle politiche ambientali, la sua strategia sembra ora paradossalmente rallentare l’innovazione e l’adattamento delle sue industrie. Il settore automobilistico, un tempo fulcro dell’industria europea, è oggi sotto pressione per una troppo rapida transizione verso la sola mobilità elettrica, con scadenze temporali che non si allineano con le capacità tecnologiche o con la disponibilità di risorse.

Le normative ambientali europee, che spingono per una drastica riduzione delle emissioni di CO2, non solo pongono un carico significativo sulle imprese, ma anche sulle economie domestiche, che rischiano di subire aumenti dei costi per l’acquisto di veicoli elettrici, la ristrutturazione delle infrastrutture e l’adattamento alle nuove tecnologie. Mentre invece tutti i veri competitor globali, come la Cina e gli Stati Uniti, riescono a implementare soluzioni molto più flessibili e competitive, l’Europa sembra muoversi su un sentiero accidentato, con politiche troppo rigide che appesantiscono l’economia senza dare tempo e risorse alle industrie per adattarsi.

Il caso del settore automobilistico europeo è emblematico. Un’industria che, nel 2008, dominava i mercati globali, oggi si trova a fronteggiare una doppia sfida: la competizione internazionale sempre più agguerrita e la difficoltà di adeguarsi ai nuovi standard ambientali. Le case automobilistiche europee, che storicamente hanno dominato il segmento di alta gamma e il mercato delle auto a motore a combustione, sono ora costrette a un’investitura massiccia in ricerca e sviluppo per la produzione di veicoli elettrici senza alcuna certezza sul buon esito.

Tuttavia, le sfide vanno oltre la mera transizione tecnologica. La produzione di batterie, che è al centro della mobilità elettrica, richiede l’accesso a risorse minerarie rare, come litio e cobalto, e a una rete di forniture globali che l’Europa non ha saputo consolidare nel tempo. Al contrario, paesi come la Cina hanno costruito una rete di approvvigionamento che garantisce l’accesso a queste risorse, mentre l’Europa è ancora in una fase di forte dipendenza da mercati esterni. In questo contesto, la crescente regolamentazione ambientale, pur essendo giusta dal punto di vista ecologico, rischia di schiacciare le imprese europee tra il dover sostenere costi altissimi e il non essere abbastanza competitivi su scala globale.

Domenico De Rosa
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L’Europa, con la sua architettura economica e politica, si trova dunque ad affrontare il paradosso di una “green economy” che rischia di alimentare solo una nuova forma di dipendenza e iniquità. Mentre le politiche ecologiche e la transizione energetica sono indubbiamente cruciali per tentare di combattere il cambiamento climatico, l’Europa sta facendo i conti con la realtà che la sostenibilità economica non può essere raggiunta a discapito della competitività industriale. Le politiche ambientali devono essere accompagnate da strategie di supporto che permettano alle industrie di adattarsi senza compromettere la loro capacità produttiva e di innovazione.

Il rallentamento economico che da tempo ormai si registra in molti settori industriali europei, compreso quello automobilistico, mette in luce un’altra verità: l’Europa non ha ancora trovato il giusto equilibrio tra la necessità di ridurre l’impatto ambientale e la necessità di preservare la sua capacità di competere nel panorama globale. La rigidità del Green Deal, senza una flessibilità sufficiente per le industrie, rischia di compromettere irreparabilmente il futuro economico del continente, che potrebbe trovarsi incapace di rispondere alla crescente concorrenza da parte di economie come quella cinese e statunitense, più rapide e adattabili.

Perciò, l’Europa si trova ad affrontare una questione cruciale: come navigare tra l’ambizione utopistica di diventare il continente più verde del pianeta e la necessità di preservare una base industriale che continui a garantire competitività, crescita e benessere economico. La sfida del Green Deal non è ecologica, ma economica e sociale. Per superarla, l’Europa dovrà ripensare tali e seriamente alle proprie politiche, adottando da subito un approccio più pragmatico e dinamico che bilanci l’ambizione ambientale con il sostegno alle industrie, evitando che la sostenibilità diventi, paradossalmente, il tramonto della prosperità europea.

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