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Frans Timmermans e il suo Green Deal Europeo: la visione di un mondo in-sostenibile o solo l’ennesima utopia elitaria?

Domenico De Rosa

Domenico De Rosa

di Domenico De Rosa

Frans Timmermans, l’architetto del Green Deal europeo, continua a farsi portavoce di un cambiamento radicale che promette di trasformare l’Europa in un continente “carbon neutral” entro il 2050. Tuttavia, le sue recenti dichiarazioni, in cui avverte delle minacce economiche che metterebbero in pericolo questa ambiziosa visione, sollevano interrogativi legittimi sulla sostenibilità della sua “creatura”. A suo dire, le distorsioni economiche che finora hanno privilegiato i “ricchi” devono essere sanate, affinché il Green Deal possa davvero avere successo. Ma è davvero questo il cuore del problema? O piuttosto, stiamo assistendo a una narrazione che, purtroppo, rischia di trasformarsi in una giustificazione per politiche economiche che gravano sulle classi medie e povere, mentre i veri beneficiari restano sempre gli stessi?

Il Green Deal, nella sua formulazione originale, è una proposta lodevole. La necessità di affrontare il cambiamento climatico e di ridurre le emissioni di gas serra è ormai un consenso globale. Ma la visione che Timmermans difende sembra essere prigioniera di un’idea alquanto utopica: quella che le politiche ambientali, se non gestite correttamente, rischiano di rafforzare le disuguaglianze sociali ed economiche, favorendo ulteriormente chi ha già il potere e le risorse. In un’intervista recente, ha infatti dichiarato che i ricchi sono i principali beneficiari delle attuali distorsioni economiche, una visione che appare tanto idealista quanto poco realistica nel contesto di un’Unione Europea sempre più segnata dalle disparità economiche e dalle difficoltà di adattamento delle industrie tradizionali alle sfide green.

Ma c’è da chiedersi: davvero il Green Deal è minacciato solo dalle disuguaglianze economiche? O piuttosto le politiche che lo sostengono rischiano di essere profondamente ingiuste, creando nuovi tipi di “distorsioni” che penalizzano le classi medie e più vulnerabili, senza affrontare i veri nodi strutturali del sistema economico europeo?

Frans Timmermans

 

Le misure per il “carbon pricing”, per esempio, rischiano di impattare pesantemente sui consumatori a basso reddito. L’aumento dei costi energetici, infatti, non colpisce solo i “ricchi”, ma anche i cittadini comuni che, in assenza di politiche sociali di accompagnamento, si vedono costretti a sostenere l’onere di una transizione energetica che, anziché essere equa, finisce per perpetuare il divario tra chi può permettersi la green transition e chi non può. La retorica di Timmermans sulla redistribuzione sembra non tenere conto di come, nella pratica, le politiche ambientali europee stiano avvantaggiando le grandi multinazionali e le economie più avanzate, mentre le piccole e medie imprese europee si trovano schiacciate dal peso delle regolamentazioni sempre più stringenti.

Non va poi sottovalutato un altro aspetto: la stessa architettura del Green Deal sembra trascurare il vero problema strutturale dell’economia globale. La competizione con economie non vincolate da regolamenti ambientali altrettanto severi – come quelle di Cina, India o Stati Uniti – potrebbe minare la competitività dell’industria europea, senza portare effettivi benefici in termini di riduzione globale delle emissioni. Le politiche proposte da Timmermans rischiano di impoverire ulteriormente i settori industriali già in difficoltà, mentre il resto del mondo continua a crescere senza vincoli, mettendo in evidenza l’ipocrisia di una transizione “green” che non riesce a tenere conto delle disuguaglianze globali.

Il piano di Timmermans appare come un’operazione volta a proteggere l’Europa da se stessa, creando solo una pericolosa illusione di progresso che tuttavia potrebbe seriamente tradursi in un aumento delle disuguaglianze all’interno del continente. Il Green Deal, se non seriamente riformato, rischia di diventare una questione elitista: un progetto che mira a “salvare il pianeta”, ideologia sostenibile solo per coloro che hanno i mezzi economici per affrontare i costi di tale transizione. E nel frattempo, chi resta indietro, chi non ha la possibilità di investire in soluzioni verdi o di adattarsi a un’economia a basse emissioni, finisce per pagare il prezzo di un cambiamento imposto senza un vero piano sociale ed economico di accompagnamento.

In definitiva, le dichiarazioni di Timmermans, purtroppo, non risolvono affatto il cuore del problema: la mancanza di un sistema di transizione seria e giusta che garantisca a tutti, e non solo ai più ricchi, la possibilità di partecipare e beneficiare dei cambiamenti imposti dal Green Deal. Il rischio è che, invece di correggere le “distorsioni economiche” globali, il Green Deal diventi l’ennesima causa di divisione e disuguaglianza sociale all’interno dell’Europa. Le politiche ambientali, per essere davvero efficaci, devono andare oltre il concetto di “punire i ricchi” e costruire un modello inclusivo che guardi al benessere collettivo e alla sostenibilità globale. Fino a quel momento, la retorica verde di Timmermans rischia di rimanere solo un’utopia ideologica per pochi, mentre il resto del continente combatte contro le sue pesanti conseguenze.

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