Viene assassinato l’11 luglio 1979, da un sicario ingaggiato da Michele Sindona, l’avvocato italiano (nonché commissario liquidatore della Banca Privata Italiana e delle attività finanziarie del banchiere siciliano) Giorgio Ambrosoli. Si trattò di un sacrificio estremo, quello dell’avvocato italiano, che pagò con la sua onestà. La vittima non ebbe grandi riconoscimenti, anzi ottenne anche un mancato appoggio da parte di Giulio Andreotti.
L’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli
La sera dell’11 luglio 1979, rincasando dopo una serata trascorsa con amici, Ambrosoli fu avvicinato sotto il portone della sua casa, in via Morozzo della Rocca 1, da uno sconosciuto. Questi si scusò e gli esplose contro quattro colpi 357 Magnum.
A ucciderlo fu il malavitoso statunitense William Joseph Aricò, la pistola l’aveva comprata da Henry Hill (Il pentito, sulla cui vita reale si basa il film di Martin Scorsese del 1990, Quei bravi ragazzi) che era stato dal 1974 al 1977 suo compagno di cella nel penitenziario di Lewisburg insieme a Robert Venetucci. Nessuna autorità pubblica presenziò ai funerali di Ambrosoli, ad eccezione di Paolo Baffi (Banca d’Italia).
Fatti antecedenti
Nel settembre 1974 fu nominato dall’allora governatore della Banca d’Italia Guido Carli commissario liquidatore della Banca Privata Italiana, guidata sull’orlo del crack finanziario dal banchiere siciliano Michele Sindona, al fine di esaminarne la situazione economica prodotta dall’intricato intreccio tra la politica, alta finanza, massoneria e criminalità organizzata siciliana.
I sospetti sulle attività del banchiere siciliano nascono già nel 1971, quando la Banca d’Italia, attraverso il Banco di Roma, inizia a investigare sulle attività di Sindona nel tentativo di evitare il fallimento degli istituti di credito da lui gestiti: la Banca Unione e la Banca Privata Finanziaria. L’allora governatore Guido Carli, chiaramente motivato dalla volontà di non provocare il panico nei correntisti, decide quindi di accordare un prestito a Sindona, anche in virtù della benevolenza dell’amministratore delegato dell’istituto romano Mario Barone. Quest’ultimo fu cooptato come terzo amministratore, modificando appositamente lo statuto della banca stessa, che ne prevedeva solo due: nel caso specifico, Ventriglia e Guidi.
Nel settembre del 1974, Fignon consegnò a Giorgio Ambrosoli la relazione sullo stato della Banca. Fignon continuò nel suo operato, tanto da essere citato anche nelle agende dell’avvocato Ambrosoli, che nulla poteva immaginare di ciò che sarebbe seguito. Ciò che emerse dalle investigazioni indusse, nel 1974, a nominare un commissario liquidatore che venne individuato nella figura di Giorgio Ambrosoli.
Minacce e pressioni
In questo ruolo, Ambrosoli assunse la direzione della banca e si trovò ad esaminare tutta la trama delle articolatissime operazioni che il finanziere siciliano aveva intessuto, principiando dalla controllante società “Fasco”, l’interfaccia fra le attività palesi e quelle occulte del gruppo. Nel corso dell’analisi svolta dall’avvocato emersero le gravi irregolarità di cui la banca si era macchiata e le numerose falsità nelle scritturazioni contabili, oltre alle rivelazioni dei tradimenti e delle connivenze di ufficiali pubblici con il mondo opaco della finanza di Sindona.
Contemporaneamente a questa opera di controllo Ambrosoli cominciò ad essere oggetto di pressioni e di tentativi di corruzione. Queste miravano sostanzialmente a ottenere che avallasse documenti comprovanti la buona fede di Sindona. Se si fosse ottenuto ciò lo Stato Italiano, per mezzo della Banca d’Italia, avrebbe dovuto sanare gli ingenti scoperti dell’istituto di credito. Sindona, inoltre, avrebbe evitato ogni coinvolgimento penale e civile.
Ambrosoli non cedette, sapendo di correre notevoli rischi. Nel 1975 indirizzò una lettera alla moglie dove mostrò il suo amore per la Nazione e la sua incorruttibilità.
Le indagini giudiziarie
Giornalista: «Secondo lei perché Ambrosoli è stato ucciso?» Giulio Andreotti: «Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi “se l’andava cercando”» – Intervista a “La storia siamo noi”, 8 settembre 2010.
Il killer fu pagato da Sindona con 25 000 dollari in contanti ed un bonifico di altri 90 000 dollari su un conto bancario svizzero; a mettere in contatto Aricò con Sindona era stato il suo complice Robert Venetucci (un trafficante di eroina legato a Cosa Nostra americana) mentre, nei pedinamenti ad Ambrosoli per preparare l’omicidio, Aricò era stato accompagnato da Giacomo Vitale, l’autore delle telefonate anonime.
Nel 1981, con la scoperta delle carte di Licio Gelli a Castiglion Fibocchi, si ebbe la conferma del ruolo della loggia massonica P2 nelle manovre per salvare Sindona. Il 18 marzo 1986, a Milano, Michele Sindona e l’italo-americano Robert Venetucci furono condannati all’ergastolo per l’uccisione dell’avvocato. Restano invece ancora sconosciuti i mandanti, sebbene sia stata più volte accreditata l’ipotesi di Giulio Andreotti.
Omaggi postumi
Giorgio Ambrosoli non ebbe grandi riconoscimenti, nonostante il sacrificio estremo con cui aveva pagato la sua onestà e il suo zelo professionale. Secondo Carlo Azeglio Ciampi, «Ambrosoli era il cittadino italiano al servizio dello Stato che fa con normalità e semplicità il suo compito e il suo dovere».
Giulio Andreotti ha invece dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi “se l’andava cercando”», rivelando così indirettamente il suo mancato appoggio politico all’avvocato; in seguito, mutò la precedente affermazione dicendo di voler «fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto».