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Giovanni Falcone, nasce il 18 maggio del 1939 il magistrato italiano che dedicò la sua vita alla lotta alla mafia

“L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza“. Sono queste le parole di Giovanni Falcone, eccellente magistrato italiano che fu assassinato da Cosa Nostra con la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta nella strage di Capaci. Tale frase è rimasta nella storia, questo perché racchiude in sé l’essenza di un uomo che ha combattuto la mafia ed oggi è il volto contro l’estenuante battaglia a questa forma di oppressione.

Giovanni Falcone, simbolo della lotta alla mafia

Figlio di Arturo, direttore del Laboratorio chimico provinciale, e di Luisa Bentivegna, Falcone nacque a Palermo il 18 maggio del 1939, terzo di tre figli, in via Castrofilippo nel quartiere della Kalsa, lo stesso di Paolo Borsellino e di Tommaso Buscetta.

Infanzia

A causa dei bombardamenti americani, Giovanni e la famiglia dovettero abbandonare la Kalsa nel 1940, rifugiandosi a Sferracavallo, un borgo della riserva marina di Isola delle Femmine.

Dopo il bombardamento della passeggiata e dei palazzi del porto, avvenuto il 9 maggio 1943, la famiglia Falcone si trasferì dai parenti della madre a Corleone. Quando vi fu l’armistizio, l’8 settembre 1943, Giovanni e la sua famiglia tornarono alla Kalsa: qui trovarono ospitalità dalle sorelle del padre, Stefania e Carmela, in quanto la loro casa risultò pesantemente danneggiata dai bombardamenti.


Una rara foto di Giovanni Falcone da bambino.

Giovanni frequentò le scuole elementari al Convitto Nazionale di Palermo (a lui intitolato nel 1999), le medie alla scuola “Giovanni Verga” e le superiori al liceo classico “Umberto I”.

Aveva la media dell’otto a scuola, frequentava l’Azione Cattolica e trascorreva gran parte dei suoi pomeriggi in parrocchia facendo la spola tra quella di Santa Teresa alla Kalsa e quella di San Francesco.

All’età di 13 anni cominciò a giocare a calcio all’Oratorio dove, durante una delle tante partite, conobbe Paolo Borsellino, più piccolo di sei mesi, con cui si sarebbe ritrovato prima sui banchi dell’Università e poi in Magistratura.

Terminò il liceo all’età di 18 anni nel 1957 con il massimo dei voti e subito dopo si trasferì a Livorno per frequentare l’Accademia navale con il pretesto che amava il mare e che voleva laurearsi in Ingegneria. Dopo soli quattro mesi, nel gennaio del 1958, fu assegnato allo Stato Maggiore, ma capì che la vita militare non faceva per lui: tornò a Palermo e si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’Università degli studi di Palermo.

Nel 1959 la famiglia Falcone fu costretto a trasferirsi in Via Notarbartolo, a causa del c.d. “Sacco di Palermo” operato dall’allora assessore Vito Ciancimino. Si laureò poi con 110 e lode nel 1961, con una tesi sull’Istruzione probatoria in diritto amministrativo, discussa con il professore Pietro Virga.

Gli inizi

Falcone vinse il concorso in Magistratura nel 1964 e in quello stesso anno sposò Rita Bonnici, maestra elementare di cinque anni più giovane laureata in Psicologia. Nel 1965, a soli 26 anni, diventò pretore a Lentini. Nel 1966 diventò sostituto procuratore e giudice presso il tribunale di Trapani, carica che mantenne per 12 anni.



Con la scomparsa del padre nell’aprile 1969, Falcone cominciò a cambiare: si schierò a favore delle idee di Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano, che votò alle elezioni politiche del 1976. Ciononostante, non parlò mai in pubblico dei suoi orientamenti politici, né si fece mai condizionare nel suo lavoro.

Nel luglio 1978 ritornò a Palermo e cominciò a lavorare nella sezione fallimentare del Tribunale, occupandosi di diritto civile. Quello stesso anno la moglie Rita lo lasciò per fare ritorno a Trapani, dove si era innamorata del presidente del Tribunale.

Il “Metodo Falcone”

A seguito del tragico attentato al giudice Cesare Terranova, il 25 settembre 1979, Falcone cominciò a lavorare a Palermo presso l’Ufficio istruzione. Il consigliere istruttore Rocco Chinnici gli affidò nel maggio 1980 le indagini contro Rosario Spatola.

È proprio durante questa prima esperienza che iniziò a formarsi il cosiddetto “Metodo Falcone”, un innovativo impianto per l’istruzione dei processi di mafia, che utilizzava gli ordinari strumenti forniti dal codice adattandoli a una nuova visione del fenomeno mafioso.

Le inchieste del giudice Falcone, pur avendo come campo di analisi il mondo del crimine, coinvolsero direttamente anche quello della criminalità economica. L’intuizione forse più intelligente fu sintetizzata da una frase che Falcone amava ripetere a proposito delle indagini sui traffici di stupefacenti: “La droga può anche non lasciare tracce, il denaro le lascia sicuramente”.


Storica immagine di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Una vera e propria filosofia d’indagine basata sull’attenzione ai documenti finanziari, agli scambi di assegni, alle impronte che il denaro lasciava dietro di sé e che caratterizzò il metodo di lavoro di Falcone, Borsellino e degli altri magistrati del futuro pool antimafia.

Appariva evidente come la presenza della criminalità organizzata in settori economici ed in ambienti politico-istituzionali determinasse, come conseguenza, un inquinamento progressivo non solo del tessuto economico locale, ma anche del contesto sociale e della vita pubblica.

Il processo Spatola

La stoffa di Giovanni Falcone fu subito chiara con l’esito del processo di Rosario Spatola. Il processo al trafficante mafioso nasceva da un rapporto di polizia giudiziaria, presentato al procuratore della Repubblica Gaetano Costa.

Era diventata subito una questione molto delicata, in quanto il procuratore si era esposto personalmente firmando ordini di cattura nei confronti di alcuni personaggi mafiosi coinvolti nel business legato al traffico di stupefacenti tra Sicilia e Stati Uniti.

Costa fu lasciato solo nel gestire la questione. Il processo, come prevedeva il vecchio codice di procedura penale, arrivò nelle mani del giudice Rocco Chinnici che, come già detto, lo affidò proprio a Falcone, l’ultimo arrivato.


Rosario Spatola.

Era l’epoca del processo cosiddetto inquisitorio (ovvero c’era un giudice che istruiva e valutava la prova) molto diverso da quello attuale, che si fonda sul modello accusatorio, questo meccanismo comportava che il vero oggetto del processo si risolvesse nella verifica della bontà della precedente attività istruttoria. Rosario Spatola era un ex ambulante, con una fedina penale quasi immacolata.

Ma in realtà Spatola era un mafioso: conquistava appalti pubblici con abbassi estremi senza mai nessuna concorrenza. Le sue imprese e i suoi cantieri, disseminati per tutta la città davano lavoro a migliaia di persone, facevano sì che Spatola venisse dipinto con una sorta di benefattore.

Falcone utilizzò un nuovo metodo d’indagine: visto che per la mafia, Palermo era la base operativa di traffici che oltrepassavano anche gli oceani, lo stesso era necessario fare per le indagini corrispondenti. Gli accertamenti bancari divennero il fulcro della nuova istruttoria.

I direttori delle banche di Palermo ricevettero una richiesta d’invio di tutte le distinte di cambio di valuta estera, relative a un certo periodo di tempo. Una rivoluzione. Il metodo Falcone era appena nato e già risultava vincente.

La nascita del Pool Antimafia

Il 29 luglio 1983 Rocco Chinnici fu ucciso con la sua scorta; lo sostituì Antonino Caponnetto, il quale riprese l’intento di assicurare agli inquirenti le condizioni più favorevoli nelle indagini sui delitti di mafia. Nacque così il pool antimafia. Il primo passo di Caponnetto fu una lunga conversazione con Falcone che tracciò un quadro breve, ma esauriente, dei problemi di mafia e degli schieramenti. I componenti del pool furono lo stesso Falcone, Di Lello (pupillo di Rocco Chinnici), Paolo Borsellino e infine Guarnotta, il giudice più anziano.


Il Pool Antimafia

Il pentimento di Tommaso Buscetta

La vera svolta nelle indagini su Cosa Nostra avvenne con il pentimento di Tommaso Buscetta. Il “boss dei due mondi”, come lo aveva ribattezzato la stampa, era stato estradato in Italia il 15 luglio 1984, dagli Stati Uniti d’America. Il primo incontro con Falcone avvenne a Brasilia, dove Buscetta era stato incarcerato.


Tommaso Buscetta, il boss dei due mondi.

Lì il giudice capì che il boss era disposto a collaborare. E così fu: il 18 luglio 1984 Buscetta ufficializzò la sua volontà a rendere dichiarazioni che si rivelarono fondamentali per l’istruzione del Maxiprocesso. Per 45 giorni Don Masino mise nero su bianco tutto quello che sapeva su Cosa Nostra. Fu talmente importante la testimonianza di Buscetta, che Falcone ebbe a dire, anni dopo:

«Prima di lui, non avevo – non avevamo – che un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Con lui abbiamo cominciato a guardarvi dentro. Ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa Nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale, ampia, a largo raggio del fenomeno. Ci ha dato una chiave di lettura essenziale, un linguaggio, un codice. È stato per noi come un professore di lingue che ti permette di andare dai turchi senza parlare coi gesti».

Il “Maxiprocesso di Palermo”

Le inchieste avviate da Chinnici e portate avanti dalle indagini di Falcone e di tutto il pool portarono così a costituire il primo grande processo contro Cosa Nostra, passato alla storia come il Maxiprocesso di Palermo: iniziò il 10 febbraio 1986 e terminò il 16 dicembre 1987.


Giovanni Falcone al Maxiprocesso di Palermo.

Durante le indagini, Cosa Nostra aveva intanto fatto eliminare Beppe Montana e Ninnì Cassarà nell’estate 1985, entrambi stretti collaboratori di Falcone e Borsellino. Il duplice omicidio costrinse Falcone e Borsellino a soggiornare presso il super-carcere dell’Asinara per poter finire di scrivere l’istruttoria del processo.

Come avrebbe ricordato Borsellino anni dopo, lo Stato addebitò ai due giudici le spese di vitto e alloggio presso il carcere.

Il 16 dicembre 1986, Borsellino venne nominato Procuratore della Repubblica di Marsala e lasciò il pool. Come ricorderà Caponnetto, a quel punto gli sviluppi dell’istruttoria includevano ormai quasi un milione di fogli processuali, rendendo necessaria l’integrazione di nuovi elementi per seguire l’accresciuta mole di lavoro.

Entrarono così a far parte del pool altri tre giudici istruttori: Ignazio De Francisci, Gioacchino Natoli e Giacomo Conte. Il Maxiprocesso si chiuse in primo grado il 16 dicembre 1987 con 360 condanne, per un totale di 2665 anni di carcere e 11,5 miliardi di lire di multe da pagare a carico degli imputati.

La nomina di Meli e la fine del pool antimafia

Nei giorni successivi alla sentenza, i giornali che appoggiavano i magistrati proclamarono la fine del mito secondo il quale la mafia era una componente invincibile e inestirpabile della cultura siciliana. La sentenza del maxiprocesso rappresentò la prova del nove del lavoro svolto dai giudici del pool.

Falcone si preoccupava però di sottolineare come il maxiprocesso non fosse nulla di più che un buon punto di partenza nella battaglia contro Cosa Nostra. Incredibilmente, all’interno della magistratura si manifestò un’insidiosa opposizione a Falcone.



Dopo la sentenza, Antonino Caponnetto fu costretto, per ragioni di salute e suo malgrado, a fare ritorno a Firenze: accettò di dare le dimissioni anche perché gli era stata data rassicurazione dagli uomini dello Stato che il suo posto sarebbe andato a Falcone, tanto da dichiararlo anche pubblicamente.

Ciononostante, il 19 gennaio 1988 il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli, un magistrato a due anni dalla pensione che non aveva alcuna esperienza in materia di processi di mafia.

Fu sufficiente appena un mese per cancellare tutto e per eliminare il pool antimafia. La sconfitta personale di Falcone era sotto gli occhi di tutti: Caponnetto prima e Borsellino poi avrebbero dichiarato dopo la sua morte che Falcone aveva iniziato a morire proprio quella notte, quando Meli diventò Consigliere istruttore al suo posto. Il risultato 14 a 10 con le strategiche astensioni fu il frutto di una strategia costruita a tavolino.

Il fallito attentato all’Addaura e il palazzo dei veleni

Per eliminare una volta per tutte colui che aveva già largamente messo a repentaglio la sopravvivenza di Cosa Nostra, il 21 giugno 1989 alcuni “uomini d’onore” piazzarono 58 candelotti di esplosivo nei pressi della spiaggetta antistante la villa del giudice che prendeva d’affitto in estate, intuendo che prima o poi il magistrato vi si sarebbe diretto per un bagno. In effetti questo avvenne, ma le bombe, presumibilmente controllate da un comando a distanza, non esplosero.

All’epoca ciò fu attribuito ad un fortunato caso (si parlò di un malfunzionamento del detonatore). Falcone capì subito che non era un semplice “avvertimento”, e soprattutto capì anche che ad organizzare l’attentato non furono solo i boss di Cosa Nostra: erano coinvolti anche apparati dello Stato e i servizi segreti.


Francobollo commemorativo di Falcone e Borsellino.

Nel frattempo, una serie di lettere anonime (di cui un paio addirittura composte su carta intestata della Criminalpol), furono inviate dal famigerato “Corvo”: ciascuna aveva la funzione di diffamare Falcone e i colleghi Giuseppe Ayala, Giammanco Prinzivalli più altri come il Capo della Polizia di Stato, Vincenzo Parisi, e importanti investigatori come Gianni De Gennaro e Antonio Manganelli. In esse Falcone veniva accusato soprattutto di avere “pilotato” il ritorno di un pentito, Totuccio Contorno, al fine di sterminare i Corleonesi, storici nemici della sua famiglia. Dopo l’Addaura Falcone era controllato a vista. Il culmine della mortificazione, dei sospetti: il giudice non sapeva più cosa fare.

La nuova vita a Roma

Al ministero di Grazia e di Giustizia, Falcone assunse il compito di Direttore degli affari Penali al ministero, con la responsabilità di coordinare a livello nazionale la lotta contro la criminalità organizzata. Il suo principale obiettivo fu la creazione di due organismi nazionali che sono tuttora i pilastri dell’azione contro il crimine organizzato: la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) e la DNA (Direzione Nazionale Antimafia).

Lavorando al centro, ossia a Roma, Falcone riuscì a fare ciò che gli era stato impedito di fare a Palermo: creare una visione unificata non soltanto di Cosa Nostra, ma dell’intero mondo del crimine organizzato italiano.

L’idea era di un organismo nazionale che coordinasse le indagini fra le varie procure. Falcone volle che la nascita dell’organismo giudiziario fosse accompagnata dalla creazione della DIA. Questo organismo, formato da polizia, carabinieri e guardia di finanza, secondo la legge istitutiva si occupava in via esclusiva di tutte le indagini antimafia.



Con il ministro Martelli c’era intesa, tanto che egli diede il via libera per un “pacchetto antimafia”: venne annunciata quindi l’istituzione della Superprocura. Ma, ancora una volta, la magistratura italiana si rivoltò contro Falcone: per il posto di procuratore venne scelto Agostino Cordova, colui che aveva appena concluso due inchieste, una sulla massoneria e l’altra su alcuni scandali di socialisti in Calabria.

Ma Falcone, inutile dirlo, non mollò. Presentò a Martelli il suo “piano”: confische dei beni, carcere duro per i boss mafiosi e una legge sui collaboratori di giustizia. Il ministro della Giustizia costrinse il presidente del consiglio Giulio Andreotti a far approvare il pacchetto antimafia e anche la “spedizione” dei capi di Cosa Nostra nei carceri dell’Asinara e di Pianosa.

Il maxiprocesso aveva superato, nel frattempo, il vaglio del giudizio di primo e secondo grado, mostrando la solidità del suo impianto e la grande professionalità dei magistrati che ci avevano lavorato.

Falcone portò al Ministero non solo la sua grande conoscenza delle questioni di criminalità organizzata, ma anche uno spirito nuovo.

Senza di lui, questo è certo, non ci sarebbero state probabilmente molte delle iniziative che assunte successivamente dal ministro di Grazia e di Giustizia in quel periodo: i provvedimenti antiracket, la legge sui collaboratori di giustizia, la Procura Nazionale Antimafia, il carcere duro per i mafiosi, il coordinamento internazionale con le polizie e le magistrature europee e con quella americana.

Sempre in quell’anno, nell’audizione davanti al Csm del 15 ottobre 1991, Falcone richiamava la sua tesi sui tre livelli dei reati, altro concetto che diede modo a chiunque lo volesse di riversarsi contro di lui.

Critiche e attacchi

Laoluca Orlando nel 1992.

Nel maggio del 1991, il sindaco di Palermo Leoluca Orlando attaccò pubblicamente Falcone durante la seguitissima trasmissione televisiva di RAI3 Samarcanda, dedicata all’omicidio di Giovanni Bonsignore: secondo Orlando Falcone aveva tenuto chiusi nei cassetti una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti di Cosa Nostra. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Rivolgendosi direttamente a Orlando, Falcone rispose: «Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati». La vicinanza con il socialista Martelli, poi, gli costò dure critiche anche dal Partito Comunista Italiano e da altri settori del mondo politico, benché nel suo ruolo di Direttore degli Affari Penali al Ministero egli si fosse limitato a lavorare per dare alla magistratura nuovi strumenti nella lotta alla mafia.

Il 10 agosto 1991, ai funerali in Calabria del giudice Antonino Scopelliti Falcone intuì il suo destino e confidò al fratello del collega: «Se hanno deciso così non si fermeranno più… ora il prossimo sarò io». Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone fu costretto poi a difendersi davanti al CSM in seguito all’esposto presentato il mese prima (l’11 settembre) da Leoluca Orlando. L’esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo».

La strage di Capaci

Sabato 23 maggio 1992 Falcone stava tornando a Palermo, come era solito fare nei fine settimana, da Roma. Il jet di servizio partito dall’aeroporto di Ciampino intorno alle 16:45 arrivò a Punta Raisi dopo un viaggio di 53 minuti. Lo attendevano tre Fiat Croma blindate, con un gruppo di scorta sotto il comando dell’allora capo della squadra mobile di Palermo, Arnaldo La Barbera.

Appena sceso dall’aereo, Falcone si sistemò alla guida della Croma bianca e accanto prese posto la moglie Francesca Morvillo, mentre l’autista giudiziario Giuseppe Costanza andò ad occupare il sedile posteriore.

Nella Croma marrone c’era alla guida Vito Schifani, con accanto l’agente scelto Antonio Montinaro e sul retro Rocco Dicillo, mentre nella vettura azzurra c’erano Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo. In testa al gruppo c’era la Croma marrone, poi la Croma bianca guidata da Falcone, e in coda la Croma azzurra. Alcune telefonate avvisarono i sicari che avevano sistemato l’esplosivo per la strage della partenza delle vetture.



Morte

Alle ore 17:58, una carica di cinque quintali di tritolo posizionata in una galleria scavata sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci – Isola delle Femmine venne azionata per telecomando da Giovanni Brusca, il sicario incaricato da Totò Riina.

Pochissimi istanti prima della detonazione, Falcone si era accorto che le chiavi di casa erano nel mazzo assieme alle chiavi della macchina, e le aveva tolte dal cruscotto, provocando un rallentamento improvviso del mezzo.

Brusca, rimasto spiazzato, premette il pulsante in anticipo, sicché l’esplosione investì in pieno solo la Croma marrone, prima auto del gruppo, scaraventandone i resti oltre la carreggiata opposta di marcia, e su fino ad una zona pianeggiante alberata; i tre agenti di scorta morirono sul colpo.



La seconda auto, la Croma bianca guidata dal giudice, avendo rallentato, si schiantò invece contro il muro di cemento e detriti improvvisamente innalzatosi per via dello scoppio. Falcone e la moglie, che non indossavano le cinture di sicurezza, venero proiettati violentemente contro il parabrezza.

Rimasero feriti gli agenti della terza auto, la Croma azzurra, che infine resistette, e si salvarono miracolosamente anche un’altra ventina di persone che al momento dell’attentato si trovavano a transitare con le proprie autovetture sul luogo dell’eccidio.

L’Italia intera, sgomenta, trattenne il fiato per la sorte delle vittime con tensione sempre più viva e contrastante, sicché alle 19:05, ad un’ora e sette minuti dall’attentato, Giovanni Falcone e sua moglie morirono intorno alle 22:00.

Insieme allo scoppio della bomba di tritolo ci fu il terremoto. L’epicentro era lì, allo svincolo autostradale per Capaci dove alle 17,58 del 23 maggio 1992 si aprì il cratere che inghiottì Giovanni Falcone, sua moglie e tre agenti di scorta, ma gli effetti arrivarono fino a Roma.

Nei palazzi del potere. A cominciare dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica avvenuta quarantotto ore dopo l’eccidio, che sancì la sconfitta di Giulio Andreotti e portò all’elezione di Oscar Luigi Scalfaro.

I funerali

Lo stesso giorno dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica, a Palermo, nella Chiesa di San Domenico, si tennero i funerali delle vittime, ai quali partecipò l’intera città.

I più alti rappresentanti del mondo politico presenti (Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni) vennero duramente contestati dalla cittadinanza. Le immagini simbolo rimaste maggiormente impresse nella memoria collettiva furono le parole e il pianto della vedova di Vito Schifani.


La lapide di Giovanni Falcone.

Vita privata

Prima della relazione con la psicologa, Rita Bonnici, Giovanni Falcone era legato a Francesca Morvilo, anch’ella magistrato e docente universitaria palermitana. I due si conobbero a casa di amici nel 1979 e da lì cominciarono la loro storia d’amore.


Giovanni Falcone con sua moglie, Francesca Morvillo.

Entrambi separati, si sposarono solo nel 1986 ottenuti i rispettivi divorzi, con una cerimonia civile officiata dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando, con pochissimi invitati, tra cui Antonino Caponnetto in veste di testimone.

Il 21 giugno 1989, mentre si trovavano in vacanza all’Addaura, i Falcone furono loro malgrado vittima del c.d. Fallito Attentato dell’Addaura, quando gli agenti di scorta ritrovarono una borsa contenente una cassetta metallica con 58 cartucce di esplosivo.

Quando Falcone decise di accettare l’incarico di Direttore degli Affari Penali del Ministero della Giustizia, seguì il marito a Roma. Anche Francesca perse la vita insieme agli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro nella strage di Capaci.

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