Giovanni Leone nacque a Napoli il 3 novembre 1908 e morì a Roma il 9 novembre del 2001. È stato un politico, avvocato e giurista italiano, sesto presidente della Repubblica italiana.
Giovanni Leone, tutto ciò che c’è da sapere sul primo Presidente
Discendente di un’antica famiglia della borghesia partenopea, da sempre famosa negli ambienti forensi, il giovane Giovanni decise di continuare “l’attività di famiglia”, intraprendendo così la carriera nel mondo dell’avvocatura e divenendo, conseguentemente, uno dei più stimati e vincenti “principi del foro” dei tribunali italiani.
Il padre è uno dei fondatori della Democrazia Cristiana a Napoli e, anche in questo caso, il figlio ne segue le orme candidandosi. Viene eletto alla Costituente nelle liste del partito bianco. I trascorsi politici di Giovanni Leone ricordano un’iscrizione al Partito Nazionale Fascista e, nel referendum istituzionale monarchia o repubblica del 1946, l’avvocato partenopeo si schierò, come la maggior parte dei suoi concittadini, decisamente e fermamente a favore della continuazione del regno dei Savoia.
Il glorioso percorso politico
Fu uno dei rappresentanti dell’ala più conservatrice della DC e si vide nel corso della sua attività svolta in seno alla Commissione dei 75 presieduta da Meuccio Ruini in cui, occupandosi (e non poteva che essere così) di giustizia e di magistratura, si adoperò molto per mantenere in vita il sistema giudiziario che era stato realizzato nel Regno d’Italia e nel periodo fascista.
Lo scontro con le sinistre e con le parti più avanzate del suo stesso partito furono duri, anche se tutti gli avversari gli riconobbero una salienza e una correttezza encomiabili. Uno dei punti su cui si dimostrò rigido e inflessibile fu il mantenimento di tutte le norme di ostracismo avverso alla carriera femminile in magistratura e avvocatura volute da Mussolini. Rimangono, a tal proposito, famosi i suoi scontri con la costituente comunista Nilde Jotti che, invece, si batteva per un regime di pari opportunità per ambo i sessi anche nel mondo forense.
I grandi incarichi e lo scontro politico col PCI
Nel 1948 viene eletto deputato per la Democrazia Cristiana a Napoli e verrà riconfermato a Montecitorio per tutte le successive legislature fino alle elezioni del 1963.
Nel 1955 il Presidente della Camera in carica Giovanni Gronchi viene eletto alla Presidenza della Repubblica e, il 10 maggio, Giovanni Leone gli subentra alla presidenza di Montecitorio dove rimarrà fino al 1963.
Memorabili sono le sue attività di mediazione tra maggioranza e opposizione come avvenne, ad esempio, per l’elezione dei primi giudici della Corte Costituzionale di nomina parlamentare. Eletti senza difficoltà i rappresentanti della Dc, del Psi e del Pli si poneva il problema legato al Pci.
I comunisti chiedevano, più che legittimamente, che, in quanto seconda forza politica del paese, vi fosse (almeno!) un alto magistrato eletto da loro indicato. La Dc rifiutava a priori un accordo con i comunisti (di cui, però, aveva accettato solo un anno prima i voti per eleggere Gronchi al Quirinale!).
La situazione sembrava senza via di uscita poiché (dato che occorre un’ampia maggioranza per l’elezione dei giudici costituzionali) un mancato accordo tra comunisti e democristiani avrebbe complicato e prolungato a lungo le votazioni.
La situazione si sbloccò dopo un accordo tra Leone e Togliatti, il segretario del Pci. Il Pci avrebbe indicato non un proprio uomo, ma un eminente giurista “di area” come l’avvocato Jaeger sulla cui designazione ed elezione caddero tutti i veti di almeno una buona parte della Dc.
Nel 1962 si deve eleggere il successore di Gronchi e nel penultimo scrutinio il candidato ufficiale dei partiti centristi (Dc, Pri, Pli e Psdi su cui convergevano in maniera determinate monarchici e missini) era il dc Antonio Segni, gradito e voluto dal segretario democristiano Aldo Moro. In tale scrutinio furono ritrovate schede in sovrannumero rispetto al numero dei votanti e si andò ad un nuovo voto.
La proposta di Togliatti e l’avvento di Segni
Il leader comunista Togliatti (che temeva una Presidenza Segni nata con i voti determinanti della destra monarchica e missina) chiese di essere ricevuto dal Presidente della Camera Giovanni Leone e gli promise l’appoggio di comunisti e (forse) socialisti qualora si fosse rinviato al giorno successivo le votazioni e farle immediatamente in notturna come volevano Moro e i capi DC per paura di ulteriori defezioni nelle file moderate.
A Leone il Quirinale non dispiaceva, ma temendo di essere accusato di utilizzare la carica ricoperta per avvantaggiare la propria carriera rifiutò la proposta di Togliatti. La Dc e Moro ne furono molto soddisfatti e riuscirono a far eleggere Segni.
Appena un anno dopo, nel 1963, le elezioni vanno male per la Dc ( – 4 %) che perde consensi a destra verso il Pli di Malagodi (che raddoppia i voti, dal 3,5 % al 7 % dei suffragi) con una politica avversa alla modernizzazione del centro-sinistra fanfanian-moroteo.
Moro, però, decide di proseguire sulla via dell’accordo coi socialisti, ma sia le destre dc, sia ampi settori del Psi di Nenni non si sentono ancora pronti: occorre almeno far trascorrere l’estate per stabilizzare gli animi e gli assetti interni ai due partiti.
Segni ricorre a Leone, i governi di transizione
Il Presidente della Repubblica Segni ricorre a Leone per la formazione di un governo monocolore democristiano (l’ennesimo, ma non l’ultimo) di transizione che permetta il trascorrere di alcuni mesi. Leone resta a Palzzo Chigi fino al dicembre del 1963 quando lascerà il posto a Aldo Moro e al suo primo governo di centro-sinistra organi con Pietro Nenni alla Vicepresidenza del Consiglio dei Ministri.
Nel 1964, dopo le dimissioni anticipate di Antonio Segni, Leone è il candidato ufficiale della Dc per la successione dell’anziano notabile sardo, ma le lotte e le faide intestine al partito di maggioranza relativa (soprattutto ad opera di Fanfani, che lavora per se stesso, da un lato e della coppia di due giovani dal futuro promettente, Carlo Donat Cattin e Ciriaco De Mita dall’altro che propongono Pastore, ma in realtà vogliono solo opporsi al potere dei dorotei) fanno si che al Quirinale risulti eletto, con i voti delle sinistre (finalmente!) unite dal Pci al Pri, dal Psi al Psdi, il socialdemocratico Giuseppe Saragat.
Nel 1968, dopo un’altra tornata elettorale difficile (questa volta per il neonato Psu, il partito che unificava Psi e Psdi, ma che aveva preso molti meno voti di quelli raccolti separatamente dai due partiti cinque anni prima e che era già prossimo ad una nuova scissione tra le due anime del socialismo italiano), il Presidente della Repubblica (in questo caso Saragat) ricorre di nuovo alle doti di mediatore di Giovanni Leone, da pochi mesi senatore a vita, per un nuovo gabinetto di decantazione di breve durata.
Come nel caso precedente (1963) è un esecutivo che resta in carica nei mesi estivi per cui i governi di Giovanni Leone verranno definiti (un po’ malignamente, indice di una velata critica) “governi balneari”.
Alla scadenza del mandato di Saragat (1971) sembra venuto il momento di Fanfani per la conquista del Quirinale. Il leader aretino è convinto di avere l’appoggio anche del Pci, ma la campagna de “il Manifesto” sui “fanfascisti” fa si che Berlinguer preferisca l’altro “cavallo di razza” democristiano, Aldo Moro, su cui però c’è l’opposizione ufficiale di molti settori della DC che, impegnati (con Andreotti Presidente del Consiglio e Forlani segretario del partito) nel “recupero a destra” (si temevano anche a livello nazionale emorragie di voti moderati a favore del Msi di Giorgio Almirante come era avvenuto in molte consultazioni elettorali amministrative nel centro-sud e in Sicilia in particolare), non gradiscono la “strategia dell’attenzione” che il leader pugliese vuole promuovere verso il Pci.
Un maligno giornale resecontò che lo staff americano fece una tremenda litigata nei confronti della politica di Moro, che dopo il colloquio si sentì male.
L’apice della carriera e la presidenza della Repubblica
Dopo 23 scrutini (molti dei quali non avevano visto la partecipazione dei grandi elettori democristiani che si erano astenuti dalle votazioni, simbolo delle fratture interne e dell’impotenza del partito di maggioranza relativa) una maggioranza di centro-destra elegge Giovanni Leone alla Presidenza della Repubblica con la minore percentuale di voti mai ottenuta da un candidato fino ad ora: 518 voti su 996 elettori. I voti provengono dalla Dc, dal Pri, dal Pli e, in maniera determinante, dal Msi di Almirante che afferma di aver avuto “una richiesta” (mai specificata, ma riconducibile a molti probabili richiedenti) di appoggio a favore di Leone.
Il vero “king maker” di Leone presidente fu, però, Ugo La Malfa che vedeva nel giurista partenopeo un candidato ideale perché non riconducibile a nessuna corrente democristiana. La Malfa (dopo aver affossato il candidato delle sinistre Nenni e strenuo oppositore di una candidatura Moro), antico antifascista, finiva per essere così il maggior sponsor elettorale di un presidente eletto coi voti determinate dei neofascisti.
I comunisti non esitarono minimamente a rinfacciarglielo: anzi il solito irruento Giancarlo Pajetta (che nelle carceri fasciste e nella guerra partigiana aveva trascorso la gioventù) aggredì il leader repubblicano gettandogli addosso, in segno di disprezzo, un sacchetto di monetine da 10 lire.
La Presidenza Leone inizia nel 1971 e termina nel 1978 con sei mesi di anticipo sulla scadenza naturale del mandato a seguito delle dimissioni richieste e ottenute da parte del Pci (entrato nell’area di maggioranza dopo le elezioni del 1976 per fronteggiare la crisi economica e l’emergenza rappresentata dal terrorismo) a seguito degli scandali e del nepotismo che da più parti si imputava agli ambienti del Quirinale e dei suoi inquilini.
Si sottolinea che uno dei sostenitori delle dimissioni anticipate di Leone fu il suo stesso grande elettore Ugo La Malfa che, ambienti laici progressisti favorevoli ad una partecipazione del comunista al governo dell’Italia guidati da Eugenio Scalfari e dal suo nuovo quotidiano “la Repubblica”, avrebbero visto bene come nuovo Presidente della Repubblica.
Da un punto di vista politico e giuridico, come ha ricordato Arturo Carlo Jemolo, il settenato di Leone fu notarile e perfettamente corretto anche se nel 1972 sciolse per la prima volta le camere in anticipo perché il suo partito, la Dc, voleva evitare rinviandolo all’anno successivo, il referendum sul divorzio.
Ciò che si imputa a Leone fu il coinvolgimento in alcuni scandali ben noti e di cui parlarono ampiamente i radicali Pannella e Bonino e un libro di Camilla Cederna.
(Camilla Cederna – “Giovanni Leone – Carriera di un presidente” – Il libro fu accusato di diffamazione, fu sequestrato, condannato al rogo, tolto dalla circolazione. Querelata la Cederna e il direttore dell’ Espresso Zanetti. Il processo si rivelò però un boomerang. Causò una feroce campagna di stampa che culminerà prima con plateali manifestazioni (Radicali) davanti al Quirinale invocando le sue dimissioni, poi il PCI le chiese formalmente).
Alcuni anni dopo la Cederna fu condannata ad un risarcimento di diversi milioni ( mi sembra di ricordare 35, che all’epoca costituivano una somma notevole, e che in ogni caso pareggiarono il conto con i diritti d’autore).
Gli ultimi anni
I suoi stessi compagni di partito (tranne il Presidente del Consiglio in carica, on. Giulio Andreotti) gli chiesero di abbandonare in anticipo la carica e così fu.
Una grande lacuna del settennato di Leone, al di fuori delle polemiche giudiziarie su cui non vogliamo pronunciarsi in questa sede, fu a nostro avviso politica: nei giorni travagliati del rapimento e dell’omicidio di Aldo Moro, non seppe essere il punto di riferimento del paese, come invece fu, negli anni successivi il nuovo inquilino del Quirinale, il socialista Sandro Pertini. D’altro canto il clima tra il paese e Leone era ormai logorato e lo confermò la copertina di un numero dell’Espresso in cui si parlava del “Circo Leone”.
Abbandonata la Presidenza della Repubblica torna al Senato come senatore vitalizio ma non si iscrive al gruppo democristiano, ma a quello misto. Solo nel 1987 torna a dare la propria adesione al gruppo senatoriale della DC.
Nel 1994 aderisce a quello del neonato Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli e Rosa Russo Jervolino. Dopo le elezioni che vedono la vittoria delle destre di Silvio Berlusconi (FI), Umberto Bossi (Lega Nord), Gianfranco Fini (AN) e Pierferdinando Casini (CCD) è uno dei quei senatori che (come alcuni altri popolari eletti come opposizione alle destre) danno il loro voto decisivo al nuovo governo Berlusconi che non ne aveva una propria al Senato. Abbandona il gruppo del Ppi per tornare in quello misto al quale è attualmente iscritto. Dopo le elezioni del 1996 ha votato la fiducia al governo di centro-sinistra dell’Ulivo di Romano Prodi.