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Italia, vittoria della Prima Guerra Mondiale: storia, antefatti, governo e date dal conflitto

La Prima Guerra Mondiale è stato un conflitto bellico che ha cambiato per sempre la fisionomia politica del vecchio continente. Il 24 del 1915 l’Italia firmò il “Patto di Londra” dove s’impegnava ad entrare nel conflitto e il 4 novembre del 1918 si celebra il trionfo del Tricolore.

Celebrazione della vittoria dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, vittoria mutilata?

A maggio l’Italia entrò nella Prima Guerra Mondiale, la nostra Nazione s’introdusse nel conflitto bellico circa dieci mesi dopo, con un taglio netto agli equilibri giolittiani e, conseguentemente, l’affermazione di ideali patriottici e risorgimentali.

Agli inizi il Regno si mantenne neutrale, mirando ad introdurre rapporti diplomatici con tutte le forze in gioco, che finirono con un patto segreto con le superpotenze della Triplice intesa.

In quel frangente, l’opinione pubblica giocò un ruolo determinante e la scelta di entrare in guerra o meno fu condizionata dal popolo, diviso tra interventisti e neutralisti.

Dopo le trattative, il Regno d’Italia abbandonò lo schieramento della Triplice alleanza, dichiarando così guerra all’Impero Austro-Ungarico, avviando le operazioni belliche il data 24 maggio 1915, al Regno di Bulgaria il 19 ottobre e all’Impero Germanico il  27 agosto del 1916.

Antefatti

La nascita del conflitto bellico tra il Regio Esercito austro-ungarico e quello italiano s’intreccia inevitabilmente con la vita di grandi uomini che, nelle epoche precedenti, hanno combattuto in linea o contro l’occupazione austriaca nella zona del nord-est della Penisola.

Tra i tanti oppositori dell’occupazione della monarchia asburgica, vi era la figura del celebre poeta, scrittore e traduttore italiano – nonché uno dei principali letterati del neoclassicismo e del preromanticismo – Ugo Foscolo.

Il 21 aprile del 1799, genio democratico Ugo Foscolo, si arruolò nuovamente come volontario nei ranghi dell’esercito come luogotenente a Bologna (concludendo così la sua breve, ma intensa avventura giornalistica presso “Il Monitore bolognese) a causa dell’avanzata austro-russa nel ferrarese e nel bolognese.

Erano i tempi precedenti alla Prima Guerra Mondiale, ed un Napoleone spaventato dalla potenza della seconda coalizione antifrancese, formata da:

grande alleanza insorta al fine di arginare il crescente potere della Francia rivoluzionaria e, conseguentemente, di togliergli tutte le conquiste ottenute sul continente e schiacciare la Rivoluzione restaurando, conseguentemente, l’antico regime.

Questa super-potenza faceva tanto spavento a Napoleone che, a suo malgrado, dovette cedere all’Austria asburgica – attraverso il Trattato di Campoformio del 1797 – la libera Repubblica di Venezia.

Foscolo, contrario a questa scelta e profondamente amareggiato, scrisse il sonetto “A Venezia che si chiude così:

“Ma verrà il giorno, e gallico lo affretta
Sublime esempio, ch’ei de’ suoi tiranni
Farà col loro scettro alta vendetta”.

Foscolo non abbandonò l’impegno politico e militare, in risposta allo schiacciante potere asburgico, infatti, decise di arruolarsi alla Repubblica Cisalpina e – verso la metà di novembre del 1797 – lasciò Venezia per occuparsi de “Il Monitore” di Milano e di Bologna.

Il 24 aprile 1799 Foscolo partecipò alla riconquista di Cento, occupata dagli Austriaci e dagli insorti, rimanendo ferito nell’assalto.

«Per curarsi e per evitare di cadere in mano austriaca, riparò prima a Calcara e poi nel monastero di Monteveglio, ove rimase fin verso la fine di maggio (sotto falso nome: Lorenzo Alighieri) allorché fu arrestato dalla guardia nazionale perché sospettato di essere un agente austriaco. Trasferito a Vignola e poi a Modena. Fu rimesso in libertà il 12 giugno all’arrivo del generale Étienne Jacques Joseph Alexandre Macdonald».

«Aggregato al reggimento degli ussari cisalpini, partecipò alla battaglia della Trebbia; ritornò a Bologna il 19 di quel mese e denunziò alla cancelleria della Commissione criminale quelli che lo avevano fatto arrestare a Monteveglio; poi partì con i resti della divisione del Macdonald alla volta di Genova».

In quel quadro storico, lo schieramento che sosteneva la causa rivoluzionaria era il seguente:

e in quel lasso di tempo precedentemente raccontato, con dovizia di particolari, Ugo Foscolo e altri patrioti avevano sudato sette camicie per istituire la libera Repubblica di Venezia, che era insorta in attesa che Napoleone (al tempo solo generale) venisse a supportarli.

Tuttavia, il direttivo francese mandò la sua pedina a scontrarsi contro gli inglesi in Egitto e i patrioti italiani rimasero senza il supporto di Napoleone che, sbalordendo tutti, decise in seguito di scendere a patti con il nemico cedendogli quei territori.

Foscolo fu uno dei grandi nomi che combatterono per una Italia unita e dovette accettare (amareggiato) un esilio forzato che gli consentì di non morire come i suoi compagni, brutalmente ammazzati dagli austro-russi a piazza San Marco.

Il romanzo epistolare “Le Ultime Lettere di Jacopo Ortis” studiato in tutti gli istituti italiani, fa fuoriuscire tutta l’anima guerriera di Ugo Foscolo, egli, infatti, racconta le le vicende del protagonista Jacopo, come l’autore, eroe risorgimentale costretto ad abbandonare Venezia e la sua amata per girare ramingo tra i paesi italiani.

Come Parini ed altri grandi patrioti, Foscolo rappresenta uno dei simboli immemori che hanno portato l’Italia a fronteggiare con onore e coraggio la sua nemesi, ovvero l’Impero Austro-ungarico nelle prime fasi del novecento.

La nascita del conflitto bellico

Con l’entrata in guerra dell’Italia venne aperto un lungo fronte presso le Alpi Orientali, che dalla Svizzera ad ovest, fino a giungere alle rive del mare Adriatico ad est.

Ed è proprio in quel frangente che il Regio Esercito italiano si scontrò duramente col Regio Esercito austro-ungarico, ci furono scontri cruenti, dove l’opinione pubblica italiana raffigurò il la mazza ferrata austro-ungarica come strumento di oppressione.

I combattimenti si concentrarono sulle Dolomiti, nello specifico dell’Altopiano di Asiago e nel Carso, lungo le rive del fiume Isonzo. La guerra apportò notevoli cambiamenti nello sviluppo economico della Nazione, oltre che in ambito sociale e politico, con tutte le menti italiane schierate a sostegno dello sforzo bellico.

Lo sforzo popolare era un qualcosa di commovente, oltre che encomiabile, enorme masse di italiani furono mobilitate sul fronte interno oltre che su quello di battaglia. Si tratta di uno dei momenti gloriosi, immemori e indelebili nella cultura popolare della cima delle Alpi alla punta della Sicilia.

I soldati dovettero adattarsi alla dura vita di trincea, mostrando uno spirito patriottico che fu determinante sul fronte di battaglia, privazioni, conseguenze psicologiche, privazioni materiali ed altre contingenze, non furono nulla per il Regio Esercito italiano.

Nonostante il grande coraggio e il grande cuore di tutte le anime (belliche e non) del Regno d’Italia, durante la battaglia di Caporetto gli austro-tedeschi approfittarono della crisi politica interna alla Russia zarista – dovuta alla rivoluzione bolscevica – per aumentare le loro schiere e diramare così un numero sorprendente truppe sul fronte occidentale italiano, questo portò alla vittoria del Regio Esercito austro-ungarico e fece arretrare il fronte italiano sulle rive del fiume Piave, dove la resistenza si consolidò.

La leggenda del Piave

«Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio
dei primi fanti il ventiquattro maggio;
l’esercito marciava per raggiunger la frontiera
per far contro il nemico una barriera…
Muti passaron quella notte i fanti:
tacere bisognava andare avanti.
S’udiva intanto dalle amate sponde,
sommesso e lieve il mormorò dell’onde.
Era un presagio dolce e lusinghiero.
Il Piave mormorò: non passa lo straniero!
Ma in una notte trista si parlò di un fosco evento
e il Piave udiva l’ira e lo sgomento.
Ahi, quanta gente ha vista venir giù lasciare il tetto,
poi che il nemico irruppe a Caporetto!
Profughi ovunque! Dai lontani monti,
venivano a gremir tutti i suoi ponti.
S’udiva allor dalle violate sponde
sommesso e tristo il mormorar dell’onde.
Come un singhiozzo, in quell’autunno nero,
il Piave mormorò: ritorna lo straniero!
E ritornò il nemico: per l’orgoglio e per la fame
volea sfogare tutte le sue brame…
Vedeva il piano aprico di lassù: voleva ancora
sfamarsi e tripudiare come allora!
– No – disse il Piave. – No, – dissero i fanti –
mai più il nemico faccia un passo avanti!
Si vide il Piave rigonfiar le sponde!
E, come i fanti, combattevan l’onde…
Rosso di sangue del nemico altero,
il Piave comandò: indietro, và, straniero!
Indietreggiò il nemico fino a Trieste, fino a Trento
E la Vittoria sciolse l’ali al vento!
Fu sacro il patto antico: tra le schiere, furon visti
risorgere Oberdan, Sauro, Battisti!
Infranse, al fin, l’italico valore
le forche e l’armi dell’impiccatore!
Sicure l’Alpi, libere le sponde
Si tacque il Piave, si placaron l’onde.
Sul patrio suolo, vinti i torvi Imperi,
la Pace non trovò nè oppressi nè stranieri!».

La canzone del Piave risulta un elemento imprescindibile della cultura popolare italiana, si tratta di un testo a cura di E.A. Mario (pseudonimo di Giovanni Ermete Gaeta) poeta e compositore italiano che per molti è al pari dell’Inno di Mameli (ideato dal celebre Michele Novaro).

Durante la Seconda Guerra Mondiale la “Marcia Reale” del Regno d’Italia fu sostituita con la Canzone del Piave ed essa descrive la grande resistenza degli irriducibili guerrieri italiani contro i continui e perpetuanti attacchi dell’Regio Esercito austro-ungarico che – dopo la vittoria a Caporetto – stava prendendo il sopravvento.

La forza indomabile del Regio Esercito italiano fece arretrare l’avanzata di uno dei più potenti e schiaccianti poteri esistenti e ciò spianò la strada alla decisiva, nonché epica, controffensiva di Vittorio Veneto.

Prima battaglia del Piave (l’avanzata di Alexander von Krobatin)

La prima battaglia del Piave si svolse nel novembre del 1917 al confine tra Trentino e Veneto, tra il Regio Esercito italiano da una parte e le forze dell’Impero tedesco e dell’Impero austro-ungarico.

Gli avversari credettero che le truppe italiane fossero vinte e moralmente distrutte, ignorando le fiere e memorabili opposizioni che precedentemente avvennero nei dintorni del monte Grappa tra le rive del Brenta e del Piave, le stesse che diedero slancio alla linea difensiva impostata lungo il fiume.

Il 27 ottobre Luigi Cadorna, ordinò ai suoi uomini di ritrarsi a seguito di un tentativo di depistamento delle truppe austro-ungariche e si ripeté quattro giorni dopo, quando vide che le operazioni di ritiro avvennero con una insolita lentezza.

Il capo della quarta armata, il prode Mario Nicolis di Robilant, credette che l’esercito fosse in grado di resistere all’avanzata austro-ungarica proveniente da Caporetto e solo il 31 ottobre, a seguito delle pressioni di Cadorna, ci fu la ritirata vera e propria.

Tuttavia, il primo novembre del 1917, la decima armata austro-ungarica, sotto la guida del generale Alexander von Krobatin, iniziò ad attaccare i fanti italiani, che in quel momento versavano in un vero e proprio stato di crisi, con i profughi lungo le strade, gli armamentari giacenti al suolo e il nemico che procedeva inesorabile, sino a raggiungere – in data 5 novembre – Cortina d’Ampezzo.

Cruenti scontri si registrarono, il 6 e il 7 novembre, attorno a Lorenzago di Cadore dove solo alcuni soldati italiani riuscirono a rompere un primo tentativo di accerchiamento nemico. Nonostante la distruzione dei ponti di sul Boite e a Perarolo di Cadore, il nemico riuscì a conquistare Cadore il 9 novembre.

Tuttavia, nonostante la costante pressione dei nemici, gli irriducibili della quarta armata del Regio Esercito italiano riuscirono – mostrando una tenacia e un orgoglio ineguagliabile – a schierarsi nuovamente presso il complesso montuoso di monte Grappa.

In quel frangente ci fu anche un cambio generale, Cadorna, dimostratosi sino a quel frangente antistorico e inappropriato a ricoprire tale carica, venne sostituito al celebre Armando Diaz, questa scelta cambiò in maniera determinante le sorti della guerra. A causa delle perplessità della prima e quarta armata di mantenere le loro posizioni, Diaz decise di occupare e organizzare i militari sul monte.

Seconda battaglia del Piave (il fronte illuminato alle soglie del mare Adriatico)

Nonostante le vittore ottenute fino a quel frangente, vi erano conflitti interni fra le forze militari austro-ungariche e quelle tedesche, il Regio Esercito nemico, allo stremo e sull’orlo della carestia alimentare, era in procinto ad effettuare un attacco estivo ordinato dal capo maggiore Arz von Straussenburg finalizzato ad assicurare i propri alleati.

Era evidente ai più che l’intransigenza tedesca (alleato che fu determinante per la conquista di Caporetto) teneva conto dell’imminente debacle dell’Impero austro-ungarico, fino a quel momento centro espansionistico dell’occidente. Cominciarono, dunque, le diverse vedute tra l’Impero austro-ungarico e l’Impero tedesco.

Da una parte vi era il feldmaresciallo Conrad (che prevedeva un intervento massiccio proveniente dal Tirolo che, conseguentemente, si sarebbe sparso a macchia d’olio sull’altopiano dell’Asiago e del monte Grappa) mentre dall’altra parte vi era il feldmaresciallo Borojević (che idealizzava un massimo sforzo da parte delle sue armate lungo il Piave, desideroso di sfruttare la posizione d’attacco dell’isoletta Grave di Papadopoli, nel territorio di Cimadolmo).

Sul fronte italiano si era già a conoscenza dell’imminente attacco delle forze nemiche grazie all’osservazione aerea quotidiana dell’aviazione leggera del Corpo Aeronautico e da quella dei palloni frenati, nonché dal servizio di spionaggio e dalla assidua corrispondenza dei connazionali residenti al di là dal fronte, effettuata con l’ausilio dei piccioni viaggiatori.

Carlo Primo d’Austria tentò invano di stipulare un trattato di pace nel 1918 (il cosiddetto “Affare Sisto”). I tedeschi, su tutte le furie, nel maggio 1918 costrinsero l’Austria-Ungheria a legarsi definitivamente a loro in un’intesa pantedesca, dandole una posizione subordinata.

L’obbiettivo stabilito, dunque, fu quello promosso da Boroević, basato sullo sfondamento delle linee italiane presso la pianura padana, costringendo il Regio Esercito avverso a stipulare un armistizio utile a liberare forze da concentrare in un secondo momento sul fronte franco-tedesco.

L’austria-ungheria impiegò oltre 60 divisioni nell’offensiva senza però raggiungere una superiorità di uomini e mezzi. Si trattava di un attacco escogitato con estrema cura e, nonostante la situazione e la mancanza di materie prime a Vienna come sui luoghi del conflitto, il morale degli uomini sembrava ancora estremamente alto e la fiducia dell’azione era elevata.

Boroević fu promosso a comandante del III gruppo armate del Piave, promosso a feldmaresciallo e considerò questa offensiva come uno sforzo suicida in quanto – convinto della sconfitta finale – avrebbe preferito preservare l’esercito per la salvezza della monarchia.

Il Regio Esercito austro-ungarico soffriva, infatti, dai conflitti interni tra Boroević e Conrad (i due capi dei corpi d’armata). Anziché concentrato in un punto – come avvenne a Caporetto – lo sforzo fu soddiviso tra i due corpi d’armata ed entrambi prevedevano azioni distinte.

Da una parte vi era un attacco diversivo sul Passo del Tonale, che avrebbe preceduto l’operazione “Lawine” (valanga) poi c’era la decima e undicesima armata di Conrad, concentrata sull’operazione Radetzky e un attacco attraverso il Piave verso Treviso da parte della quinta e sesta armata Boroević, operazione Albrecht. Queste operazioni dovevano fungere da tenaglia per chiudere gli italiani attorno alla zona di Padova.

Tuttavia, la mancanza di tatticismo fu determinante per questa battaglia e l’esercito italiano riuscì a riorganizzarsi, oltre che a recuperare in termini fisici e morali, la risposta del Generale Diaz, infatti, condusse alla condanna l’offensiva austroungarica, facendo così avverare i presagi di Boroević.

A febbraio, l’italia si era già totalmente ripresa dalla disastrosa sconfitta avvenuta l’autunno precedente, anche grazie all’aiuto degli alleati, c’era un netto recupero di armamenti e scorte, il morale dei soldati era in netto aumento e l’affidabilità degli stati maggiori era garantita da uno stretto rapporto tra il governo e le forze armate, il tutto era di buon auspicio per l’imminente confronto tra due eserciti.

Nel marzo del 1918, il Regio Esercito italiano poteva contare su uno schieramento di 54 divisioni, senza contare i reparti inglesi, francesi, la legione cecoslovacca e la Legione Romena d’Italia.

In data 10 aprile, l’Italia schierava 232 caccia, 66 bombardieri e 205 ricognitori in aggiunta ai rinforzi francesi, con 20 ricognitori e del Regno Unito con 54 caccia e 26 ricognitori. Nel mese di giugno, l’aviazione italiana disponeva – in zona di guerra – 65 squadriglie e 9 sezioni con 647 aerei per 770 piloti, 474 osservatori, 176 mitraglieri, 916 motoristi e 477 montatori.

Gli italiani conoscevano in anticipo i piani del nemico, inclusa la data e l’ora dell’attacco, tanto che presso la zona del monte Grappa e dell’altopiano dei Sette Comuni, venne effettuata la cosiddetta “contropreparazione anticipata”, nello specifico da parte dell’artiglieria della sesta armata del Regio Esercito sotto la guida del Generale Roberto Segre, dal quale dipendeva il VII Gruppo (poi 7º Gruppo Autonomo Caccia Terrestre).

Poco dopo la mezzanotte, per quasi cinque ore le artiglierie del Regio Esercito superarono decine di migliaia di proiettili di grosso calibro, tanto che gli alpini che salivano a piedi sul monte Grappa videro l’intero fronte illuminato a giorno sino al mare Adriatico. Molti soldati austriaci abbandonarono i fucili e scapparono dinnanzi ai disarmanti contrattacchi italiani sul monte Grappa e i gendarmi riuscirono a bloccare i fuggitivi solamente nella piana di Villacco.

Il 15 giugno l’Austria-Ungheria riuscì a conquistare Montello e il paese di Nevesa, passando per Pieve di Soligo-Falzè di Piave e continuarono ad avanzare sino a Bavaria, eppure furono annichiliti dalla possente, nonché inarrestabile controffensiva italiana (supportata dai francesi).

Volando a bassa quota per rallentare l’avanzata, il “Servizio Aeronautico italiano” mitragliava costantemente il nemico, sul campo di battaglia morì Francesco Baracca, il più grande asso dell’aviazione italiana. Dal Comando supremo militare italiano dipendevano il Raggruppamento Squadriglie da Bombardamento con il IV Gruppo, XI Gruppo e XIV Gruppo oltre al X Gruppo (poi 10º Gruppo).

L’impiego del Corpo Aeronautico fu determinante e causò il ripiegamento delle truppe nemiche che registrò un cospicuo rallentamento di forniture di armi e viveri, ciò costrinse all’Austria-Ungheria da attuare un strategia difensiva e a ripiegare, conseguentemente, oltre il Piave. Furono all’incirca un centinaio i soldati che morirono affogati nella notte nel tentativo di riattraversare il fiume in piena.

Successivamente alla ritirata austriaca, re Vittorio Emanuele III visitò Nervesa liberata, ma completamente distrutta dai colpi di artiglieria. Ulteriori fanni furono registrati anche alle ville sul Montello e al patrimonio artistico della zona. Stessa sorte toccò a Speriano, completamente distrutta.

Nella loro avanzata, gli austro-ungarici giunsero sino al cimitero di Spresiano, ma l’artiglieria italiana che sparava da Visandello e i perpetuanti attacchi della fanteria italiana, riuscirono a bloccarli.

Le truppe nemiche attraversarono il Piave anche in altri punti, conquistando le zone di Grave di Papadopoli, ma successivamente si dovettero ritirare. Percorsero Ponte di Piave attraverso la direttrice ferroviaria Portogruaro-Treviso, ma vennero respinti dalle ardite schiere italiane dopo alcune settimane di lotta, nella zona di Fagarè. Passarono il Piave anche a Candelù, da Salgareda raggiunsero Zenson e Fossalta, ma la loro offensiva si spense in pochi giorni.

Le truppe austro-ungariche vennero respinte dai gloriosi settimi lancieri di Milano, comandati dal generale Gino Augusti che contenne l’avanzata nel 19 giugno 1918 presso la frazione di San Pietro Novello presso Monastier di Treviso infliggendo loro una sconfitta decisiva nell’economia della Battaglia del Solstizio.

L’operazione militare passerà alla storia come la “Carica di San Pietro Novello”: il reggimento di Cavalleria pur in inferiorità di uomini e mezzi riuscì nell’impresa, combattendo anche appiedato in un corpo a corpo alla baionetta. Dalla mattina dell’attacco alle ore 4.00, il feldmaresciallo Boroevic, osservava l’effetto dei proiettili oltre Piave.

Durante la Battaglia del Solstizio, gli Austriaci spararono 200mila granate lacrimogene e asfissianti. Si fronte del Piave, quasi 6mila cannoni austriaci sparavano da S. Biagio di Callata sino a giungere a Lancenigo. Furono diversi i proiettili che, sparati da un cannone di 750kg posizionato di nascosto a Gorgo al Monticano, arrivarono fino a 30 km di distanza colpendo Treviso.

I contadini – figure emblematiche di questa battaglia – portarono secchi d’acqua dall’altra parte del fronte, per raffreddare le bocche da fuoco dei cannoni italiani, che martellavano incessantemente le avanguardie nemiche e le passerelle poste sul fiume. Bombardando le passerelle, gli austriaci si ritrovavano con pochissimi rifornimenti e fu difficile la loro permanenza oltre Piave.

Alla foce del fiume, intanto, gli italiani avevano allagato il territorio di Caposile, al fine di impedire ogni tentativo di avanzata. Dal fiume Sile vi eran i cannoni di grosso calibro della Marina Italiana, caricati su chiatte, che si spostavano freneticamente per non essere individuati e tenendo, conseguentemente, occupato il nemico da San Donà di Piave alla Cavazuccherina di Jesolo. Il punto di massima avanzata degli austriaci, convinti di arrivare presto a Treviso, fu a Fagarè, sulla provinciale Oderzo-Treviso.

Gli Arditi, la fanteria speciale – particolarmente addestrata per le tecniche d’assalto e nel combattimento corpo a corpo – del Generale Ottavio Zoppi, venne impiegata intensivamente in piccole unità i cui membri erano dotati di petardi “Thévenot”, granate e pugnali, occupavano le trincee e le tenevano fino all’arrivo dei rincalzi di fanteria. Come dei leoni inarrestabili, dunque, gli uomini di Zoppi tennero “caldo” il nemico in attesa del sopraggiungere della fanteria.

Terza battaglia del Piave (la resa dei conti tra l’Italia e Impero austro-ungarico)

Il 24 giugno 1918 la battaglia del solstizio si concluse con un significativo successo dell’esercito italiano, che era riuscito a respingere l’ultima grande offensiva generale dell’esercito austro-ungarico (operazioni “Lawine”, “Radetzky” e “Albrecht”) sia nel settore del Piave sia nel settore del Monte Grappa; nelle settimane successive, con una serie di contrattacchi locali, erano state riconquistate dagli italiani anche le piccole teste di ponte costituite sul Piave dagli austro-ungarici. La grande battaglia aveva segnato una svolta decisiva della guerra sul fronte italiano: l’esercito austro-ungarico aveva subito pesanti perdite, 118 000 morti, feriti e dispersi, superiori a quelle italiane, 85 600 morti, feriti e dispersi, senza raggiungere risultati decisivi e al contrario subendo un grave indebolimento della sua forza materiale e della sua coesione morale.

Nonostante l’importante vittoria difensiva il generale Armando Diaz, capo di Stato maggiore del Regio Esercito dal 9 novembre 1917 dopo la destituzione del generale Luigi Cadorna in conseguenza del disastro di Caporetto, rimaneva prudente e non molto ottimista sulla possibilità di sferrare in tempi brevi una grande controffensiva. Sollecitato il 12 e il 27 giugno dal generale Ferdinand Foch, comandante supremo alleato, a passare risolutamente all’attacco, il generale Diaz aveva evidenziato nelle lettere del 21 giugno e del 6 luglio come l’esercito austro-ungarico, pur battuto, aveva ancora mostrato disciplina e capacità combattiva; egli inoltre lamentava carenze di materiali e di complementi che rendevano consigliabile evitare attacchi prematuri, e richiedeva il concorso delle truppe statunitensi, in fase di massiccio afflusso in Europa, anche sul fronte italiano.

Il 24 luglio il generale Foch stilò un memorandum in cui proponeva di passare finalmente all’offensiva generale sul fronte occidentale sfruttando l’indebolimento dell’esercito tedesco e il continuo arrivo, al ritmo di 250 000 soldati al mese, dei contingenti statunitensi; pochi giorni dopo il generale John Pershing, comandante in capo dell’American Expeditionary Forces, manifestò la sua contrarietà a disperdere le sue truppe su altri fronti e si oppose alle richieste italiane di concorso di truppe americane sul fronte del Piave. Mentre incominciavano le continue offensive anglo-franco-americane, l’inattività dell’esercito italiano sollevò le perplessità e le critiche degli Alleati, e il generale Diaz alla fine di agosto si recò in Francia per incontrare il generale Foch, esporre la situazione sul fronte italiano e richiedere nuovamente la partecipazione dei reparti statunitensi.

Durante la permanenza del generale Diaz in Francia, Foch ribadì la sua opposizione a inviare in quel momento grandi contingenti statunitensi in Italia: il comandante in capo alleato si dimostrò ottimista e affermò di ritenere possibile entro la fine dell’anno ricacciare i tedeschi oltre il Reno, promettendo invece per la primavera del 1919 l’invio di 400 000 soldati americani sul fronte italiano. In realtà la situazione globale della guerra alla metà di settembre e i segni di cedimento degli Imperi centrali sul fronte occidentale e sul fronte balcanico sembravano prospettare la possibilità di un crollo dei nemici già entro il 1918; di conseguenza si correva il rischio per l’Italia che il conflitto finisse con la vittoriosa avanzata alleata sugli altri fronti, prima ancora che l’esercito italiano fosse finalmente passato all’attacco, e con gli austro-ungarici ancora in possesso del Friuli e di parte del Veneto.

Queste considerazioni spinsero quindi lo stato maggiore italiano a elaborare i primi progetti offensivi. Il 25 settembre il colonnello Ugo Cavallero, capo ufficio operazioni del Comando supremo militare italiano, diramò uno “Studio di una operazione offensiva attraverso il Piave” che illustrava una serie di possibili piani: il documento prevedeva la possibilità di dover sferrare in breve tempo un’offensiva di fronte all’imminente crollo del nemico, e in questo caso l’attacco avrebbe dovuto essere rapidamente allestito, immediatamente efficace e cogliere di sorpresa gli austro-ungarici. Escludendo attacchi nell’inadatto territorio dell’altopiano dei Sette Comuni, il colonnello Cavallero proponeva un’offensiva in pianura, nel settore del Piave, con direttrice strategica verso Vittorio Veneto; il fronte d’attacco sarebbe stato esteso su circa venti chilometri e si prevedeva di impegnare ventiquattro divisioni e mezza oltre a tre divisioni britanniche.

Il 26 settembre il generale Enrico Caviglia, comandante dell’8ª Armata, fu convocato al quartier generale e messo a conoscenza della memoria operativa redatta dal colonnello Cavallero; il generale rilevò che mentre il colonnello Cavallero e il generale Pietro Badoglio, sottocapo di Stato maggiore generale, apparivano chiaramente favorevoli a passare all’offensiva, il generale Diaz era molto meno deciso e manteneva dubbi e incertezze. Il generale Caviglia espresse critiche al progetto e consigliò di apportare alcune modifiche operative: egli proponeva di ampliare il fronte d’attacco verso nord fino a Vidor e di organizzare, alcuni giorni prima dell’inizio dell’offensiva principale, anche un assalto diversivo nel settore del Monte Grappa. Le idee del generale Caviglia vennero discusse e approvate in un colloquio con il colonnello Cavallero e i generali Badoglio e Scipione Scipioni, quindi il piano venne presentato a Diaz che sembrò d’accordo.

Nel frattempo la situazione generale del conflitto mondiale stava evolvendo sempre più rapidamente a favore degli Alleati; il 26 settembre sul fronte occidentale era ripresa l’avanzata anglo-franco-americana e il 4 ottobre gli Imperi centrali presentarono le prime richieste di armistizio. Il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando era seriamente preoccupato che la guerra finisse improvvisamente senza una chiara vittoria italiana: si temevano profonde ripercussioni diplomatiche e la rimessa in discussione delle clausole del Patto di Londra del 1915. Il 3 ottobre Orlando si era recato a Parigi e aveva assicurato il generale Foch che in tempi brevi l’esercito italiano sarebbe passato all’attacco, ma il comandante supremo alleato sembrò poco interessato alla notizia e fiducioso di poter raggiungere la vittoria sugli Imperi centrali senza il concorso italiano. Orlando era sempre più impaziente: il 15 ottobre inviò al generale Diaz un esasperato telegramma in cui affermava di “preferire all’inazione la sconfitta”, e si ventilò la possibilità della sostituzione del capo di stato maggiore generale con il generale Gaetano Giardino. In precedenza, il 1º ottobre, si era già verificato un burrascoso scontro tra Orlando e il generale Diaz sulla necessità di attaccare al più presto anche per ragioni politiche.

Il 13 ottobre finalmente Diaz convocò al quartier generale di Abano Terme i comandanti delle armate per illustrare il piano di operazioni dell’offensiva preparato il giorno precedente, che riprendeva in gran parte il progetto del colonnello Cavallero integrato con alcune delle proposte del generale Caviglia. Secondo questo piano l’attacco decisivo sarebbe stato effettuato sul Piave tra il Montello e le Grave di Papadopoli dall’8ª Armata del generale Caviglia, supportata sui fianchi da due nuove armate molto più piccole: la 10ª Armata affidata al generale britannico Frederick Cavan, e la 12ª Armata comandata dal generale francese Jean César Graziani. Dopo aver superato il fiume, le forze del generale Caviglia avrebbero puntato su Vittorio Veneto, bloccando le vie di comunicazione delle armate austro-ungariche schierate sul basso Piave, mentre la 12ª Armata sarebbe avanzata a nord di Valdobbiadene e verso Feltre. La 4ª Armata del generale Giardino doveva tenersi pronta ad attaccare nel settore del Monte Grappa in direzione di Primolano e Arten; infine la 6ª Armata del generale Luca Montuori avrebbe protetto l’altopiano dei Sette Comuni.

La decisione del comando supremo di costituire le due nuove armate, formate da cinque divisioni italiane, due britanniche e una francese, e di affidarne il comando a due generali stranieri, fu criticata da alcuni alti ufficiali tra cui i generali Giardino e Caviglia, e sembra che sia stata motivata soprattutto da ragioni di opportunità politico-diplomatica per riguardo nei confronti degli alleati occidentali. In realtà dal punto di vista strategico la costituzione delle due piccole armate era inutile, mentre l’assegnazione dei comandi ai due generali stranieri si dimostrò un errore che avrebbe favorito l’enfatizzazione propagandistica da parte anglo-francese di un presunto ruolo decisivo degli Alleati anche nella battaglia di Vittorio Veneto.

Negli ultimi giorni prima dell’offensiva il piano di operazioni venne ancora modificato dal comando supremo: il 18 ottobre Diaz comunicò ai generali Giardino, Caviglia, Montuori e Graziani che era necessario, in attesa che le condizioni del Piave permettessero l’attacco principale nel settore del fiume, organizzare e sferrare al più presto un attacco nell’area del Massiccio del Grappa in direzione Primolano-Feltre per agganciare il nemico e distogliere parte delle sue forze dagli altri settori. A questo scopo il generale Giardino, che avrebbe diretto l’attacco con la 4ª e la 12ª Armata, venne sollecitato a completare i preparativi entro il 23 ottobre; si temeva che un armistizio generale fosse imminente e quindi era assolutamente necessario attaccare subito. Dopo un incontro tra i generali Giardino e Diaz il 21 ottobre, venne stabilito che l’offensiva avrebbe avuto inizio il 24 ottobre con l’attacco nel settore del Monte Grappa a cui sarebbe seguito entro dodici ore l’assalto principale sul Piave.

L’ordine d’operazioni definitivo venne comunicato il 21 ottobre e confermava che l’offensiva sarebbe incominciata con un’azione della 4ª e 12ª Armata nel settore Brenta-Piave per impegnare le forze austriache schierate nel Trentino, mentre l’attacco più importante sul medio Piave sarebbe stato sferrato “entro le prime ore notturne del medesimo giorno” dall’8ª e dalla 10ª Armata e una parte della 12ª Armata; la 6ª Armata avrebbe collaborato con una manovra verso Cismon. I generali Caviglia e Giardino mossero alcune critiche al piano finale: il primo ritenne che fosse necessaria una maggiore distanza di tempo tra i due attacchi per poter attirare le riserve austriache nel settore del Brenta, mentre il secondo nelle sue memorie lamentò l’insufficiente tempo concessogli per i preparativi e mise in dubbio l’efficacia tattica dell’assalto nel settore del Monte Grappa; di fatto il piano di operazioni avrebbe costretto la 4ª Armata a sferrare costosi attacchi frontali, simili alle inutili battaglie dell’Isonzo, subendo pesanti perdite.

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