Cronaca, Economia

Stipendi da fame e salario di 5 euro all’ora: l’Italia affronta un’emergenza lavorativa

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Stipendi da fame e salario minimo (di 5 euro all’ora): l’Italia affronta una emergenza lavorativa. Mai così pochi giovani sotto i 35 anni: siamo il Paese più anziano d’Europa e nei prossimi dieci anni perderemo oltre due milioni di lavoratori a causa della mancanza di ricambio generazionale. Questo rappresenta un allerta grave per le finanze pubbliche, con la sostenibilità economica e sociale del Paese in pericolo.

Stipendi da fame e salario di 5 euro all’ora in Italia: è emergenza

In Italia, la questione del lavoro si intreccia sempre più drammaticamente con due problematiche fondamentali: la precarietà dei salari e l’invecchiamento della forza lavoro. Una combinazione pericolosa che minaccia la stabilità economica e sociale della nazione.

Una questione urgente che non può più essere rimandata è quella del salario minimo, soprattutto dopo la bocciatura da parte della Corte di giustizia europea della direttiva Ue che mirava a fermare retribuzioni orarie al limite della schiavitù. Ci riferiamo a contratti nazionali che prevedono salari inferiori ai 5 euro l’ora. “Un valore inaccettabile, soprattutto in un contesto economico in cui il costo della vita continua a salire”, avverte Marco Pepe, consigliere nazionale di Unimpresa, sottolineando come la sentenza europea chiuda la porta a una possibile soluzione legislativa del problema.

In sostanza, l’Unione Europea non ha la competenza di intervenire in materia di retribuzione, nemmeno per stabilire requisiti minimi, poiché ciò rappresenterebbe un’ingerenza nelle prerogative nazionali. Se la Corte di Giustizia dovesse seguire le conclusioni dell’Avvocato generale, come avviene nella maggior parte dei casi, la direttiva verrebbe annullata. Questo significherebbe che gli Stati membri non sarebbero più obbligati a rispettare le disposizioni previste dal testo normativo. “Questa eventualità potrebbe avere conseguenze significative, soprattutto nei Paesi che hanno già adottato misure basate sulla direttiva o che stavano pianificando modifiche legislative in tal senso,” osserva Pepe. Tuttavia, le possibilità di intervento sono limitate a causa del crollo della produttività, della stagnazione economica e dell’aumento del costo della vita.

Il calo della forza lavoro

Trovare un accordo sul “salario giusto” rappresenta solo uno dei problemi da affrontare. Il rapporto “Demografia e forza lavoro” del Cnel mette in luce una crisi altrettanto preoccupante: nei prossimi dieci anni, l’Italia potrebbe perdere 2,5 milioni di lavoratori a causa dell’invecchiamento della popolazione. Dal 2014, il Paese ha già intrapreso un percorso di declino demografico, che ora si riflette sulla popolazione in età lavorativa.

La fascia di età tra i 25 e i 34 anni conta quasi un milione di occupati in meno rispetto a quella dei 55-64 anni, un dato che colloca l’Italia al primo posto per squilibri generazionali in Europa. Mentre altri Paesi come Francia e Spagna riescono a mantenere un certo equilibrio tra le fasce più giovani e quelle più anziane, l’Italia si distingue negativamente per un progressivo sbilanciamento della propria forza lavoro.

Non solo ci sarà una diminuzione del numero di giovani lavoratori, ma anche quelli presenti saranno sempre più demotivati o inclini a cercare opportunità in altri paesi europei, dove le condizioni lavorative sono più favorevoli.

Il percorso professionale

Il consigliere del Cnel, Alessandro Rosina, suggerisce per superare questa situazione un cambiamento strutturale nelle politiche del lavoro, attraverso un nuovo Patto generazionale che restituisca ai giovani un ruolo attivo, valorizzando il loro percorso professionale. Questo patto si fonderebbe su tre pilastri fondamentali:

1. Transizione scuola-lavoro e formazione continua: Investire nella preparazione dei giovani e garantire un costante aggiornamento delle competenze professionali.
2. Armonizzazione tra vita lavorativa e familiare: Rendere compatibili i tempi di lavoro con le esigenze della vita personale e delle responsabilità familiari.
3. Integrazione tra generazioni: Promuovere una collaborazione fruttuosa tra giovani e lavoratori esperti, valorizzando sia l’esperienza che l’innovazione.

“Se non cambiamo direzione,” avverte Rosina, “rischiamo di avere sempre meno giovani pronti e motivati a lavorare nel nostro Paese. Questo non farà altro che indebolire ulteriormente l’economia e compromettere la nostra competitività a livello globale.” Si fa urgente la necessità di un intervento immediato: non può esserci crescita senza equità, e non ci sarà futuro senza una nuova generazione disposta a credere nel proprio Paese.

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