Cronaca

Morto Raffaele Cutolo, chi è il boss fondatore della Nuova Camorra Organizzata

Raffaele Cutolo è morto in cella all’età di 79 anni. Ma chi è o’ professore diventato leggenda? Come ha costruito la sua carriera criminale? Scopriamo tutti i segreti del boss fondatore della Nuova Camorra Organizzata e protagonista di una delle trame più controverse della storia d’Italia.

Raffaele Cutolo è morto, chi è o’ professore diventato leggenda

Raffaele Cutolo è nato il 4 novembre del 1941 ad Ottaviano ed è morto oggi, 17 febbraio a Parma. Cutolo è stato un mafioso italiano, fondatore nonché capo della Nuova Camorra Organizzata. Aveva due fratelli, Pasquale e Rosetta Cutolo, i quali pure hanno intrapreso una carriera criminale; Rosetta ha condiviso le sorti di Raffaele e la sua attività è stata fondamentale per le sorti della NCO.


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Come è nata la leggenda di Cutolo, il primo omicidio

Cutolo nacque da Michele e Carolina Ambrosio. Il padre, detto ‘O monaco per la sua fervente religiosità, era un contadino mezzadro, mentre la madre era una lavandaia. Dopo aver conseguito la licenza elementare svolse numerosi lavori come garzone presso artigiani locali. A 22 anni commise il suo primo omicidio: avvenne nel centro di Ottaviano, a seguito di una rissa, uccidendo un giovane che aveva fatto dei pesanti apprezzamenti nei confronti di sua sorella.

Ha riconosciuto due figli, Roberto – nato dalla breve relazione (8 mesi) con Filomena Liguori (denunciata più volte per sfruttamento della prostituzione) – e Denise. Ha due nipoti: Raffaele Cutolo (Napoli, 7 ottobre 1987), suo omonimo, e Roberta Cutolo (Napoli, 25 maggio 1991), entrambi figli di Roberto Cutolo (Napoli, 25 gennaio 1962 – Tradate, 19 dicembre 1990) – e di Assunta Setaro (Napoli, 1º dicembre 1962). Il figlio Roberto, pregiudicato, è stato ucciso a Tradate, in Lombardia, da affiliati della ‘ndrangheta il 19 dicembre 1990, per volontà di uno dei maggiori antagonisti di Cutolo, il boss vesuviano Mario Fabbrocino.

La latitanza

Nel corso della latitanza, ha avuto una relazione con Lidarsa Bent Brahim Radhia, una donna tunisina a cui dedicherà una poesia. Dalla relazione nascerà Yosra. Nel 1980 Cutolo acquistò da Maria Capece Minutolo, vedova del principe Lancellotti di Lauro, il Castello Mediceo, dove i suoi genitori avevano lavorato come guardiani, per la somma di 270 milioni di lire. Il castello sarà oggetto nel 1991 di confisca ai sensi della legge 13 settembre 1982, n. 646 e dato in proprietà al comune di Ottaviano.


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Cutolo, il matrimonio con Immacolata Jacone

Nel 1983 sposò Immacolata Jacone, figlia di Salvatore assassinato nel 1988 sorella di Giovanni (che nel 1996 assassinò la moglie e nel 2009 la madre) e di Luigi, anch’egli ucciso nel 1992. Il matrimonio venne celebrato dallo storico cappellano del carcere dell’Asinara, don Giorgio Curreli, nella chiesa di Cala d’Oliva e di quell’evento, che non mancherà di suscitare polemiche, restano 36 foto mai rese pubbliche. È stato condannato a quattro ergastoli da scontare a partire dal 1995 in regime di 41 bis. Il boss ha più volte criticato tale regime che, a suo parere, viola i diritti umani, tanto da preferire la pena di morte.

La vita in carcere

È stato rinchiuso in diverse carceri italiane: nel 2000 viene trasferito nel carcere di Novara e dal 2007 al 2011 è stato detenuto nel carcere di massima sicurezza di Terni, nella cella che fu di Bernardo Provenzano. Successivamente è stato trasferito nel carcere di massima sicurezza de L’Aquila ed infine in quello di Parma. Intanto il 30 ottobre 2007 diventa di nuovo padre.


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L’inseminazione artificiale

La bambina viene concepita attraverso l’inseminazione artificiale, cui si sottopone la Jacone, grazie ad una speciale autorizzazione ottenuta nel 2001.


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La pandemia di Covid

Il 19 febbraio 2020 viene ricoverato all’ospedale civile di Parma per una crisi respiratoria dopo lo scoppio della pandemia di COVID-19 del 2020 in Italia e nelle settimane a seguire rifiuta le cure e la tac. Viene dimesso a inizio aprile, facendo così ritorno nel carcere di Parma; subito dopo, il suo avvocato chiede la concessione degli arresti domiciliari a causa delle condizioni di salute, ma l’istanza viene respinta poiché può essere curato in cella e le sue patologie non vengono ritenute “esposte a rischio aggiuntivo” (il regime di 41 bis gli permette “di fruire di stanza singola, dotata dei necessari presidi sanitari”).

Il trasferimento in ospedale

Il 30 luglio 2020 è stato trasferito dal carcere di Parma in ospedale, a quanto pare per un aggravamento delle condizioni di salute e problemi respiratori. Secondo il suo legale “continuano a sostenere che rifiuta di fare gli esami, ma noi riteniamo che non sia lucido”: la moglie è andata a trovarlo il 22 giugno e Cutolo non l’avrebbe riconosciuta. Muore nel reparto sanitario detentivo del carcere di Parma il 17 febbraio 2021.

La carriera criminale: l’omicidio Viscito e il carcere

Il 24 settembre 1963 commette l’omicidio di un ragazzo di Ottaviano, Mario Viscito. Cutolo percorre il viale principale di Ottaviano insieme a sua sorella, quando, con l’auto in folle per mancanza di benzina, Mario Viscito fa apprezzamenti sulla sorella Rosetta. Ne seguirà una rissa, al termine della quale Raffaele uccide il giovane; resosi latitante si presenta due giorni dopo presso una caserma dell’Arma dei Carabinieri. Per questo reato verrà condannato all’ergastolo, pena ridotta in appello a 24 anni di reclusione, che comincia a scontare presso il carcere di Poggioreale.

Il “duello” in carcere

In carcere sfida a duello Antonio Spavone, altro boss della camorra, durante l’ora d’aria in uno scontro con la “molletta” (termine utilizzato per indicare il coltello a scatto) ma questi non si presentò; l’evento fece guadagnare prestigio a Cutolo, rendendolo popolare tra i detenuti che, sempre più numerosi, chiedono la sua protezione. Nel 1970, viene scarcerato per decorrenza dei termini. Riguardo a quel periodo, Pasquale Barra, dichiarò che:

“Nel 1970, quando Raffaele Cutolo, mio compagno d’infanzia, era tornato momentaneamente libero, andammo con Vincenzo Alfieri nel Gargano per uno “scarico” di sigarette di contrabbando; in quell’occasione, ci incontrammo con alcuni esponenti della ‘ndrangheta calabrese, tra cui i Mammolito, i De Stefano ed i Cangemi, che invitarono Cutolo a costituire “società”, ossia un’organizzazione delinquenziale analoga a quelle esistenti in Calabria e in Sicilia, proponendogli di diventare “capo-società”. Non se ne fece nulla, perché prima Raffaele poi io fummo arrestati. Il primo nucleo camorristico della NCO fu poi costituito proprio nel carcere di Poggioreale”.

Rimase in attesa di giudizio, ma quando la Corte Suprema di Cassazione confermò la condanna, si dette alla latitanza fino al 25 marzo 1971, quando venne nuovamente arrestato e condotto nel carcere di Poggioreale.

La detenzione e la nascita della NCO

Durante la detenzione a Poggioreale si ritiene sia nata la “Nuova Camorra Organizzata” (NCO). Si tratta di un’organizzazione piramidale e paramilitare, basata sul culto di una sola personalità. Questi sono i ruoli assunti dagli affiliati: il picciotto, il camorrista, lo sgarrista, il capozona e infine il santista. Al vertice c’è solo Raffaele Cutolo detto “Vangelo”. Tra i primi affiliati si ricordano i detenuti Raffaele Catapano, Pasquale D’Amico, Giuseppe Puca e Michele Iafulli.

Il progetto criminale

L’organizzazione si ispira alla Bella Società Riformata: il suo progetto criminale è ispirato ad un’ideologia pseudo-ribellista di impronta meridionalistica, che però attinge in parte alla propaganda delle organizzazioni terroristiche. In carcere Cutolo crea le basi per una organizzazione criminale cui saranno affiliati, in primo luogo, i detenuti di cui Cutolo conosce le esigenze, i bisogni e le aspettative. Un ruolo particolare spetta a Alfonso Rosanova, imprenditore e mente economica della NCO, e a Rosetta Cutolo. Ma soprattutto, Cutolo conta su un esercito di giovani – la cosiddetta manovalanza cutoliana – reclutati tra le file del sottoproletariato. L’affiliazione prevede l’adesione totale alla volontà del capo. Questa è simbolicamente rappresentata da un rituale di iniziazione per il quale i nuovi adepti giurano fedeltà ripetendo un testo ispirato ai cerimoniali di stampo massonico. Il testo è stato ritrovato grazie all’arresto di Giuseppe Palillo, e proprio per questo è detto giuramento di Palillo; alcuni storiografi invece ritengono che si tratti di un rituale mutuato da quello della ‘ndrangheta alla quale Cutolo si affiliò tramite i Piromalli e Paolo De Stefano, dopo aver fatto uccidere in carcere il loro rivale Mico Tripodo.

Rimane a Poggioreale sino al maggio del 1977 quando la sentenza della Corte d’Appello riconosce al boss l’infermità mentale, disponendone il ricovero in un istituto psichiatrico per un periodo non inferiore a 5 anni; viene messo in osservazione presso il monastero di Sant’Eframo Nuovo a Napoli per poi trasferirsi nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa.

La latitanza e i rapporti con la Banda della Magliana

Cutolo evase dall’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa il 5 febbraio 1978 in modo violento, grazie all’aiuto di Giuseppe Puca: una carica di nitroglicerina piazzata all’esterno dell’edificio squarciò le mura permettendo la fuga del boss. Nel corso della latitanza avvia rapporti con la malavita pugliese, con la ‘ndrangheta, con le bande lombarde di Renato Vallanzasca e con Francis Turatello per il commercio della cocaina. Con il falso nome di Prisco Califano, Cutolo gira l’Italia, si reca ad Ottaviano dal sindaco Salvatore La Marca. In poco tempo, la NCO penetra tutti i settori dell’economia campana e, anche grazie alla connivenza e l’assenso dei politici locali, riesce ad usufruire dei fondi della CEE destinati ai produttori di conserve.


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Appena evaso, organizza un incontro con Nicolino Selis e l’emergente Banda della Magliana allo scopo di trovare, tra i rispettivi gruppi, una strategia compatibile con gli obiettivi di entrambe le organizzazioni, nominando così “il Sardo” suo luogotenente nella piazza romana. All’incontro, che avviene in un albergo di Fiuggi dove, secondo la deposizione del pentito Maurizio Abbatino, Cutolo dispone di un intero piano per sé e per i propri guardaspalle, partecipano anche Franco Giuseppucci, Marcello Colafigli e lo stesso Maurizio Abbatino, e questo segna un momento decisivo nella storia della Banda che, tra le sue varie attività, ha modo di attivare un canale preferenziale con i camorristi per la fornitura delle sostanze stupefacenti da distribuire poi nella capitale. Cutolo come primo favore chiede di far sparire una Bmw 733 sporca di sangue che verrà portata allo sfascio da Giuseppucci e Renzo Danesi e nella quale il boss aveva ucciso due persone poi gettate in mare.

A marzo i servizi segreti italiani intavolano una trattativa con Vincenzo Casillo per giungere ad un accordo con Cutolo quale intermediario per giungere ad una soluzione sulla liberazione di Aldo Moro. Il boss attiva Nicolino Selis e di conseguenza la Banda della Magliana per trovare il covo che si scoprirà essere nella zona dove abitano diversi membri del gruppo. Maurizio Abbatino e Renzo Danesi racconteranno di un incontro avvenuto lungo il Tevere tra il boss della Magliana Giuseppucci e l’onorevole Flaminio Piccoli, mandato appunto da Cutolo. Tuttavia, neanche l’intervento della Banda sarà risolutivo, dato che il presidente della Democrazia Cristiana verrà ucciso dalle Brigate Rosse.


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“Franco disse dov’era il covo delle Brigate Rosse. Comunicò dove avrebbero potuto trovare Moro. Ma l’informazione fu ignorata. Ce lo chiese Raffaele Cutolo attraverso Nicolino Selis. Lo cercammo. Franco chiese anche a Faccia d’angelo, quel De Gennaro che fu coinvolto nel sequestro del duca Grazioli. Comunque la prigione era in zona nostra, in via Gradoli. Riportammo la notizia a Flaminio Piccoli, che arrivò da noi mandato da Cutolo. Non partecipai alla discussione, sulle rive del Tevere, andò solo Franco che poi mi riportò la richiesta: trovare la prigione di Aldo Moro. Nient’altro. Nessun intervento da parte della banda. Avremmo solo dovuto comunicare l’indirizzo. Pochi giorni dopo Franco passò l’informazione.”

A luglio la Banda, con il placet di Cutolo, ucciderà Franco Nicolini detto “Franchino er Criminale”, all’epoca padrone assoluto di tutte le scommesse clandestine dell’ippodromo Tor di Valle e le cui attività illegali avevano suscitato l’interesse del gruppo di Giuseppucci, anche se il motivo primario del suo omicidio è da ricercarsi in un torto fatto subire a Nicolino Selis in carcere.

La cattura ad Albanella

Il 10 maggio 1979 Cutolo telefona alla redazione de Il Mattino intimando ai rapitori di Gaetano Casillo di liberare immediatamente l’ostaggio: poco dopo, il rapitore sarà assassinato. Il 15 maggio 1979, Cutolo viene catturato in un casolare ad Albanella in provincia di Salerno.

La nuova cattura e il terremoto in Irpinia

Il 23 novembre 1980 un terremoto colpisce l’Irpinia ed altre zone dell’Italia meridionale; quella notte, il carcere di Poggioreale è teatro di una resa dei conti tra detenuti (appartenenti e non alla NCO): il bilancio è di tre morti e otto feriti. La criminalità organizzata si insinua per intercettare il denaro stanziato per la ricostruzione (stimato in 50.000 miliardi di lire) anche grazie alla grande discrezionalità conferita alle amministrazioni locali nella gestione degli aiuti. Nel dicembre dello stesso anno, Cutolo commissiona l’assassinio di Marcello Torre, sindaco di Pagani, per aver bloccato l’assegnazione di un appalto per la rimozione delle macerie ad un’impresa collegata alla NCO.

Nel corso degli anni, Cutolo acquisisce grande popolarità ed importanza, presentando la sua nuova organizzazione come mossa da scopi di riscatto e della difesa dei più deboli. In tal senso, è utile ricordare una dichiarazione di Cutolo riportata da Isaia Sales:

“Dicono che ho organizzato la nuova Camorra. Se fare del bene, aiutare i deboli, far rispettare i più elementari valori e diritti umani che vengono quotidianamente calpestati dai potenti e ricchi e se riscattare la dignità di un popolo e desiderare interamente un senso vero di giustizia, rischiando la propria vita per tutto questo, per la società vuol dire camorra, allora ben mi sta quest’ennesima etichetta.”

La stessa ideologia traspare in una intervista rilasciata a Enzo Biagi nel 1986. Durante questo periodo Cutolo riceve alcune personalità politiche, come Francesco Mirtiello, ed ottiene il trasferimento nel carcere di Marino del Tronto, diretto all’epoca da Cosimo Giordano, dove può gestire la sua organizzazione in tranquillità, in una camera elegantemente arredata e con alle sue dipendenze Giovanni Pandico e Giuseppe Palillo.

La guerra tra NCO e Nuova Famiglia

La graduale crescita del potere della NCO non può che disturbare le famiglie della vecchia camorra campana, come gli Zaza (affiliati alla mafia siciliana) e i Giuliano di Forcella che si riuniscono in un’associazione provvisoria detta Onorata Fratellanza. In principio, si riesce a trovare un accordo per una spartizione territoriale; successivamente, l’accordo salta poiché Cutolo pretende una forte tangente sul contrabbando delle sigarette. In questo momento, a San Cipriano d’Aversa nasce la Nuova Famiglia o NF rappresentata da Lorenzo Nuvoletta, Carmine Alfieri, Michele Zaza ed infine Antonio Bardellino, ritenuto fondatore dell’omonima organizzazione e del clan dei casalesi. La lotta tra le fazioni fu alquanto sanguinosa: le vittime furono 295 nel 1981, 273 nel 1982, 290 nel 1983. Tra gli episodi, si ricorda il 30 maggio 1981 l’esplosione di un ordigno nei pressi della villa di Raffaele Cutolo, probabilmente per ordine di Antonio Bardellino.

Nell’estate del 1981, presso la masseria dei Nuvoletta – presente, per Cosa Nostra siciliana, anche il capo dei Corleonesi Totò Riina – i boss si riuniscono per porre fine alla mattanza, una tregua che Cutolo non sembra volere accettare. Infatti, dopo poco tempo i cutoliani uccidono Salvatore Alfieri e la guerra riprende, a tutti i livelli ed in tutti gli ambienti. A tal fine, le carceri sono suddivise in due sezioni separate, una per i cutoliani (in numero maggiore) e l’altra per gli affiliati alla “Nuova Famiglia”, ritenuti militarmente meglio organizzati; ma tuttavia alcuni sostengono che il fattore decisivo per le sorti della guerra sia in realtà stata la graduale perdita di appoggio politico.

Il trasferimento ad Ascoli, il ruolo nel sequestro Cirillo e i rapporti con le istituzioni

All’inizio del 1981 Cutolo ottiene il trasferimento nel carcere di Marino del Tronto ad Ascoli Piceno, il 27 aprile di quell’anno, l’assessore democristiano Ciro Cirillo – responsabile amministrativo della ricostruzione postsismica – viene rapito dalla “colonna napoletana” delle Brigate Rosse, nell’occasione diretta da Giovanni Senzani. In quel periodo, il boss incontra alcuni esponenti della DC e rappresentanti dei servizi segreti italiani che chiedono la sua collaborazione; in particolare, le richieste sarebbero pervenute da Giuliano Granata (all’epoca sindaco di Giugliano in Campania), Silvio Gava, Francesco Pazienza, Flaminio Piccoli, Francesco Patriarca, Vincenzo Scotti ed Antonio Gava. Testimoni degli incontri ad Ascoli Piceno, il direttore e il cappellano del carcere, il luogotenente di Cutolo Vincenzo Casillo e Alfonso Rosanova.

Attraverso le informazioni dei brigatisti Luigi Bosso e Sante Notarnicola, Cutolo riesce a conoscere i nomi dei carcerieri di Cirillo: Pasquale Aprea e Rosaria Perna, guidati da Senzani. Cutolo riesce a stabilire una cifra per la liberazione dell’assessore napoletano che avviene il 24 luglio 1981. Tutto si risolve in un reciproco scambio di favori tra uomini della DC, servizi segreti, NCO e Brigate Rosse. Tra i favori delle BR a Cutolo, è possibile annoverare l’omicidio del vicequestore Antonio Ammaturo, avvenuto il 15 luglio 1982. In seguito il fondatore della NCO avanzò alcune richieste che non saranno mai accolte, come la seminfermità mentale e alcuni trattamenti di favore per sé e per gli affiliati dell’organizzazione.

La vicenda sarà resa nota il 16 marzo 1982 quando su L’Unità appare una notizia sconvolgente firmata da Marina Maresca. Seguiranno altri servizi che riportano i nomi delle personalità in “visita” al carcere di Ascoli Piceno. La notizia si basa su un documento (un foglio intestato Mininter) che si rivelerà falso, anche se i contenuti troveranno riscontro grazie al lavoro del giudice istruttore Carlo Alemi che il 28 luglio 1988 deposita una sentenza-ordinanza di 1.531 pagine in cui viene documentato come alcuni esponenti della DC abbiano avviato una trattativa con Cutolo. Per tutta risposta, il presidente del Consiglio allora in carica, De Mita, afferma che Alemi si era posto “al di fuori del circuito istituzionale”; nel settembre 1988 il ministro della Giustizia, Vassalli, apre un’indagine disciplinare, poiché il giudice istruttore aveva indicato nel suo provvedimento i nomi degli onorevoli Flaminio Piccoli, Antonio Gava, Vincenzo Scotti e Francesco Patriarca come partecipi delle trattative. Alcuni giorni dopo il deposito della sentenza-ordinanza, inoltre, senza che fosse conosciuto alcun atto processuale, esce un articolo che attribuisce ad Alemi la responsabilità di aver commesso “diffamazione a mezzo giudice”, dando conto di “un orrendo insieme di sospetti e di insinuazioni”.

Nel 1990 il CSM assolve Alemi, riconoscendo la correttezza del suo operato; dopo 12 anni dal sequestro, la sentenza di appello consacrerà le conclusioni a cui era giunto il magistrato. In ragione dell’attività investigativa svolta da Alemi, le sue conversazioni erano state intercettate dal SISMI; per l’occasione, era stato richiamato il generale Giuseppe Santovito, a capo dei servizi, il quale era stato allontanato nel 1981 per lo scandalo P2.

L’esilio all’Asinara e la fine della NCO

Nel 1982, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini chiede ed ottiene il trasferimento di Cutolo dal carcere di Ascoli Piceno ad un penitenziario di massima sicurezza, presso il carcere dell’Asinara, che fu riaperto esclusivamente per lui e dove trascorrerà un paio di anni come unico carcerato, determinando un duro colpo all’influenza del boss. Qui sarà completamente isolato; gli affiliati cominciano a dissociarsi o a pentirsi: in particolare le rivelazioni di Giovanni Pandico e Pasquale Barra (cui si aggiunsero quelle di tanti altri pentiti) consentirono il maxi-blitz del 17 giugno 1983 (definito dalla stampa “il venerdì nero della camorra”) che prevede più di 856 mandati di cattura per i cutoliani, eseguiti in tutta Italia; fra gli altri destinatari più o meno noti degli ordini di cattura, dal presidente dell’Avellino calcio Antonio Sibilia, ai terroristi di opposte fazioni Pierluigi Concutelli e Sante Notarnicola, dal bandito settentrionale Renato Vallanzasca a politici meridionali come Giuseppe D’Antuono e Salvatore La Marca, sino al cantante Franco Califano e al conduttore televisivo Enzo Tortora, tutti accusati di essere affiliati o fiancheggiatori della NCO di Cutolo.

Degli 856 ordini di arresto, 337 colpirono soggetti già detenuti e l’operazione occupò in tutto circa 10.000 fra carabinieri e agenti di polizia, parte dei quali impiegati nell’occupazione pressoché militare del paese di Ottaviano, centro degli interessi di Cutolo; la stessa giovane moglie di Cutolo, Immacolata Jacone, sposata qualche settimana prima nel carcere dell’Asinara ove il boss era detenuto, sfuggì al blitz e rimase latitante.

Il Procuratore Capo di Napoli, Francesco Cedrangolo, insieme agli investigatori, comunicò che le indagini avevano richiesto la redazione di un rapporto di 3.800 pagine, e immediatamente iniziarono ad affiorare numerose indiscrezioni circa il contenuto delle rivelazioni del Barra e del Pandico, anche a proposito del caso del sequestro di Ciro Cirillo, e fu subito diffusa la notizia che il Barra aveva accusato Enzo Tortora di spacciare droga nel mondo dello spettacolo per conto di Cutolo. Cedrangolo, alla domanda diretta sulla certezza che Barra avesse detto la verità e che le sue accuse avessero tutte fondamento, rispose: “Non abbiamo l’abitudine di emettere ordini di cattura senza motivo” e “Tutte le affermazioni raccolte sono state sottoposte in questi mesi a controlli accurati”. Tuttavia, nel maxiprocesso contro la NCO scaturito dal blitz del 1983, Tortora e Califano saranno assolti insieme a tanti altri imputati perché le dichiarazioni dei pentiti si riveleranno infondate.

Grazie alle testimonianze dei membri della NCO, vengono inoltre scoperti i mandanti di alcuni omicidi eccellenti come quello eseguito ai danni del vicedirettore del carcere di Poggioreale Giuseppe Salvia colpevole di aver disposto la perquisizione di Cutolo come da regolamento carcerario.

Il ruolo negli omicidi Cuomo e Casillo

Vincenzo Casillo e Mario Cuomo sono vittime di un attentato a Roma il 29 gennaio 1983 grazie a una bomba nascosta in un’automobile. Casillo muore sul colpo, Mario Cuomo invece sopravvive ma rimane mutilato degli arti inferiori. Il 2 febbraio 1984 la donna di Casillo, Giovanna Matarazzo, verrà ritrovata in un blocco di cemento, uccisa probabilmente a causa delle sue dichiarazioni al magistrato Carlo Alemi rispetto al collegamento tra la morte di Casillo e l’omicidio di Roberto Calvi, perpetrato – secondo la donna e secondo i pentiti – dallo stesso Casillo.

A creare confusione circa le dinamiche dell’attentato, saranno i collaboratori di giustizia della NCO: Giovanni Pandico, Pasquale Barra (entrambi rivelatisi poi calunniatori di Enzo Tortora), Mauro Marra, Pasquale D’Amico e Claudio Sicilia (quest’ultimo membro della Banda della Magliana), nonché alcuni fedelissimi del boss di Ottaviano. Difatti, in assenza di Raffaele Cutolo, oramai detenuto in regime di isolamento nel Carcere dell’Asinara, Casillo era divenuto il nuovo capo della NCO. L’organizzazione criminale, privata del suo capo primordiale, decimata dagli arresti e colpita dalle accuse dei collaboratori di giustizia, vive le sue fasi terminali; Casillo si sarebbe dunque adoperato per ricostituirne l’influenza ed il potere prima di essere vittima dell’attentato. A tal proposito, si registrano le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia:

Secondo Giovanni Pandico e Pasquale Barra, due personaggi ricchi di risentimento verso Cutolo (pur essendo ancora affiliati alla NCO), la morte di Casillo fu decisa dallo stesso Cutolo e messa in atto da un suo fedelissimo, Giuseppe Puca, boss di Sant’Antimo. Il movente andrebbe rintracciato nel presunto tradimento di Vincenzo Casillo, reo di aver stretto legami col clan Nuvoletta, legato a Cosa Nostra e storico nemico della NCO.

Secondo Mauro Marra, gli stessi vertici dell’organizzazione ignoravano chi fossero i responsabili della morte di Casillo. Ragion per cui il direttivo della NCO fece circolare la voce secondo cui si fosse trattato di un incidente, di cui né Cutolo né i suoi nemici erano responsabili. Cuomo e Casillo non sarebbero rimasti vittime di una autobomba piazzata da qualcuno ma di una bomba che essi stessi trasportavano in auto, e che avrebbero dovuto utilizzare nei giorni successivi per commettere una ritorsione.

Ma la bomba sarebbe esplosa accidentalmente. Tale strategia criminale servì ad evitare che i restanti cutoliani venissero colti da una doppia spirale di terrore, se difatti avessero ritenuto Cutolo il vero responsabile della morte di Enzo Casillo, che definiva il suo “amico più caro”, gli affiliati avrebbero perso ogni sorta di stima e fiducia verso il loro boss; se viceversa avessero creduto che Casillo fosse morto per mano dei nemici di Cutolo, quelli della Nuova Famiglia, i restanti affiliati alla NCO avrebbero nutrito forte scoraggio nel sentirsi tanto vulnerabili, essendo i clan rivali riusciti nell’impresa di eliminare il boss Vincenzo Casillo, infliggendo così uno smacco finale a ciò che restava della NCO.


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Secondo Claudio Sicilia, ex boss della Banda della Magliana, il Casillo sarebbe stato assassinato per volontà di Cutolo da Corrado Iacolare. In sintesi Casillo e Cuomo si sarebbero recati a Salerno per ritirare alcune bombe con cui commettere delle ritorsioni sugli imprenditori restii a pagare le tangenti alla NCO. In quell’occasione Iacolare avrebbe imbottito di esplosivo l’auto del Casillo per poi farlo saltare in aria a Roma. Anche secondo Claudio Sicilia l’omicidio sarebbe avvenuto con la collaborazione di Giuseppe Puca. Il Sicilia racconta inoltre che alcuni affiliati alla NCO erano preoccupati per un’agendina che Enzo Casillo aveva sempre con se, e l’unico uomo in grado di svelare ogni dettaglio sulla vita di Casillo era il suo braccio destro, Mario Cuomo, il sopravvissuto, colui che a bordo della stessa auto di Casillo era scampato alla morte pur mutilato delle gambe. Ma Mario Cuomo non sarebbe stato facilmente raggiungibile poiché ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma e continuamente piantonato dalla polizia.

Così i cutoliani avrebbero chiesto allo stesso Claudio Sicilia, personaggio ben addentrato nel contesto della mala romana, di infiltrare un uomo del personale ospedaliero nella stanza di Mario Cuomo. Claudio Sicilia avrebbe eseguito l’ordine, ma la persona da lui incaricata non sarebbe stata in grado di arrivare al Cuomo poiché questi versava ancora in stato di incoscienza ed era in effetti piantonato strettamente.
Secondo Pasquale D’Amico la tesi dell’incidente sarebbe vera. La bomba a bordo dell’auto sarebbe esplosa accidentalmente, mentre veniva trasportata degli stessi Cuomo e Casillo e destinata a Liguori, il suocero di Michele Zaza. Va pur detto che Pasquale D’amico potrebbe essere uno dei tanti ex affiliati alla NCO che, come raccontato dal pentito Mauro Marra, avrebbero appreso la falsa tesi dell’incidente, ossia la versione di comodo inventata dai vertici NCO per tranquillizzare gli affiliati.


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Secondo quanto raccontato invece da Antonio Mancini, altro pentito della Banda della Magliana, alcuni affiliati alla Nuova Famiglia avevano brindato davanti a lui in carcere per la “saltata” di Casillo, ma lui rimase “convinto, per com’era controllato il territorio romano dalla Banda, che non avrebbero potuto prescindere, per fare l’attentato, dal gruppo di Salvatore Nicitra, operante a Primavalle alle dirette dipendenze di Enrico De Pedis“.

Raffaele Cutolo, accusato quale mandante dell’omicidio dai pentiti Barra e Pandico, si proclamerà innocente davanti alla corte, dichiarando di aver appreso da voci confidenziali che si era trattato di un incidente, insinuando il dubbio che la morte di Casillo fosse opera dei servizi segreti italiani. La bomba era infatti esplosa nelle vicinanze di una sede dei servizi segreti, e Casillo era munito di una tessera dei servizi con cui, benché latitante, entrava ed usciva dalle carceri italiane per comunicare con gli altri affiliati. Circostanza di cui è testimone lo stesso Cutolo durante le accertate trattative tra Stato e camorra per la liberazione dell’assessore Ciro Cirillo, nei giorni in cui il suo amico Enzo Casillo lo raggiungeva in carcere accompagnato dagli uomini dei servizi segreti italiani:

Signor Presidente desidero dire che io sono in carcere da 26 anni, ultimamente ho preso qualche 10 ergastoli, quindi la mia vita deve finire in carcere, ma non desidero pagare per la morte dell’amico mio più caro… Comunque, vi ripeto, tutti mi hanno detto che è stato un incidente, se poi è un omicidio dovreste domandare ad un certo apparato dello Stato, che gli ha rilasciato la tessera dei servizi segreti, e benché latitante entrava in tutte le carceri italiane. Però tutti mi hanno detto che è stato un incidente.


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In sintesi, secondo la magistratura, la tesi dell’attentato maturato in seno alla stessa NCO per volontà di Cutolo non è credibile, così come la tesi dell’incidente, avvalorata dallo stesso Cutolo semplicemente perché, non essendo il boss di Ottaviano un collaboratore di giustizia, se ne era sempre ben guardato dal produrre dichiarazioni che avrebbero potuto incriminare qualcuno, amico o nemico che fosse. È difatti noto che le poche notizie sensibili rivelate da Cutolo hanno sempre riguardato persone defunte contro cui la magistratura nulla avrebbe potuto e che nessun altro avrebbero coinvolto:

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La verità giungerà anni dopo, nei giorni del pentimento dei boss Pasquale Galasso e Carmine Alfieri, i capi indiscussi della cosiddetta Nuova Famiglia, i famigerati nemici di Cutolo. Entrambi riportano la medesima versione degli eventi ed entrambi sono ritenuti attendibili poiché si autoaccusano dell’omicidio. Galasso ed Alfieri confermano che l’omicidio Casillo ha posto la parola fine alla NCO di Raffaele Cutolo, benché in principio tale omicidio è stato partorito dalla loro stessa collera, essendo entrambi assetati di vendetta per l’assassinio dei rispettivi fratelli, commissionato mesi prima da Cutolo per punire il rifiuto di Galasso ed Alfieri di associarsi alla NCO.

È Galasso a gestire l’intera faccenda. Alfieri ha in parte già colmato la sua sete di vendetta mesi prima, quando i suoi uomini uccidono uno degli esecutori materiali dell’omicidio di suo fratello. Galasso invece è ossessionato dal desiderio di vendicare il fratello morto appena poche settimane prima e, non potendo colpire direttamente Cutolo, decide di uccidere Casillo, l’uomo più importante rimasto a capo dei cutoliani, nonché ritenuto l’esecutore materiale dell’omicidio di suo fratello Nino. I due pentiti raccontano di aver corrotto un uomo di punta della NCO, tale Giuseppe Cillari, che diventa il loro infiltrato all’interno dell’organizzazione rivale. Casillo, in quel periodo, vive a Roma dove gode della protezione dei politici, dei malavitosi e dei servizi segreti.

Cillari è colto da ripensamento quando sa che Enzo Casillo è stato l’esecutore materiale dell’omicidio di Roberto Calvi, su commissione della mafia, attraverso il clan Nuvoletta, con cui lo stesso Casillo stava tessendo una nuova alleanza. A detta di Galasso, Pinuccio Cillari aveva acconsentito a tradire i suoi compari poiché riteneva che oramai la NCO fosse destinata a scomparire, ma quando si accorge che Casillo stava riguadagnando terreno e che aveva addirittura la mafia alle spalle, comincia a tentennare. A quel punto Galasso passa alle minacce: se Cillari non gli avesse consegnato Casillo, la sua famiglia sarebbe stata oggetto di rappresaglie da parte della Nuova Famiglia. L’occasione giusta si presenta quando Enzo Casillo chiede a Cillari di acquistare un’autovettura, una Golf. La stessa vettura che fu imbottita di esplosivo e dove Vincenzo Casillo trovò la morte. Nel luglio del 1993, il pentito Pasquale Galasso, riferisce che il tritolo per l’attentato fu fornito dalla mafia, che probabilmente, in simbiosi con i servizi segreti, intendeva liberarsi del testimone più scomodo circa la morte di Roberto Calvi e la trattativa Stato-camorra per la liberazione dell’assessore Cirillo. Per l’omicidio Casillo, sono stati condannati all’ergastolo Ferdinando Cesarano e Pasquale Galasso.

Le perizie psichiatriche

Raffaele Cutolo è stato sottoposto a numerose perizie psichiatriche e solo nell’aprile 1984 – all’epoca della detenzione all’Asinara – è stato dichiarato chiaramente capace di intendere e di volere. In precedenza, Cutolo era stato dichiarato infermo di mente e, dunque, non responsabile delle sue azioni. Va ricordata la perizia prodotta nel 1974 dai professori Failla e Villardi, secondo la quale la personalità di Cutolo è caratterizzata da gravi manifestazioni paranoidi ed epilettoidi.

La perizia favorevole ha permesso a Cutolo di trascorrere molto tempo in due manicomi, il manicomio napoletano di Sant’Eframo e l’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa i cui direttori – Giacomo Rosapepe e Domenico Ragozzino – si sono tolti la vita. Nel 1984, i professori Battista Marineddu, Giancarlo Nivoli e Adriano Senini dichiarano Cutolo perfettamente lucido, anche se non escludono tratti paranoidi.

Nella cultura di massa

Un’altra vita, libro scritto da Francesco De Rosa, ha la prefazione dell’ex-vescovo di Caserta Raffaele Nogaro, descrive la figura di Cutolo.
La canzone di Fabrizio De André Don Raffaè (da Le nuvole) è stata considerata un riferimento esplicito alla figura del boss di Ottaviano. Infatti, Cutolo fu entusiasta della canzone e ringraziò più volte il cantautore in diverse lettere in cui chiedeva come fosse a conoscenza dei dettagli della vita in carcere. Inoltre, inviò a De André delle poesie da musicare.

Camorra: è morto il boss Raffaele Cutolo

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