NAPOLI. «Il nostro grazie a Dio vuole essere non formale, ma reale e sentito, nel senso che deve ‘incarnarsi’ nel nostro vissuto, per cui ognuno di noi è chiamato a prendere atto della realtà nella quale è immerso. Dobbiamo capire, insomma, se siamo disposti a compiere anche noi un “atto di amore” per la nostra comunità travagliata e sofferente. Ciò è tanto più necessario perché la nostra amata Napoli è troppo ingenerosamente vittima di quei luoghi comuni in cui si ritrovano, spesso insieme, verità e menzogna, realtà e infingimenti, dando luogo alla rappresentazione di una città raccontata solo attraverso i suoi eccessi e i suoi malesseri che, purtroppo, non sempre sono inventati», esordisce così il cardinale Crescenzio Sepe nel Te Deum di fine anno.
«Speranza di svolta e cambiamento»
Per restare nella realtà e nella verità del nostro vissuto – continua Sepe – alla domanda “che anno è stato questo?”, non ho difficoltà a rispondere che, pur tra luci e ombre, sostanzialmente è stato un anno di speranza. Speranza di svolta e di cambiamento. Speranza di riscatto e di rinascita. Speranza di una nuova presenza sul proscenio internazionale. Speranza di recupero della credibilità offuscata se non perduta. Speranza di lavoro. Speranza di futuro. Speranza che non è sogno o illusione, ma che è il volto del nuovo giorno, da vivere e da riempire di contenuto, sulla base, peraltro, di segnali incoraggianti. Ci sono, per la verità, forti segnali di ripresa soprattutto nel settore del turismo. Vediamo continuamente in giro, per le nostre strade e nei pressi dei tanti siti culturali e paesaggistici, folte schiere di turisti. Qualcosa sta cambiando. Forse la stessa visita di Papa Francesco dello scorso anno, teletrasmessa in Italia e in tutto il mondo, ha dato impulso alla fiducia, perché ha fatto vedere una città ordinata, accogliente e fortemente cordiale. Al di là di questa considerazione o supposizione, comunque, rimangono grossi problemi da risolvere. Innanzitutto, quello del lavoro».
La questione del lavoro
«Lo sappiamo tutti e l’ho ripetuto più volte che la mancanza di lavoro è la madre di tutti i problemi. Problema che probabilmente non è estraneo a certi fenomeni gravi come le zuffe e le sparatorie tra ragazzi durante la movida; come le rapine di giovani ai danni di altri giovani; come la vile e gravissima aggressione, subita proprio in questi giorni dal giovane Arturo, ragazzo a modo e innocente, che mi propongo di incontrare presto unitamente alla sua famiglia. In questi casi non si tratta di bravate o di bullismo. Non si tratta di ragazzate. Questa è delinquenza che affonda le sue radici sostanzialmente in quella tendenza al crimine che ha ben altre cause che vanno dalla disgregazione delle famiglie, alla dispersione scolastica, alle amicizie sbagliate, alla cultura della strada per la mancanza o insufficienza dei luoghi che favoriscano la sana aggregazione e la corretta formazione, il confronto, l’emulazione, la buona compagnia. Qui siamo in presenza di vere baby gang della cui nascita e del loro imperversare ho lanciato l’allarme, ahimè!, in questi ultimi anni e prima ancora nel 2012, allorquando auspicai una legge regionale per gli oratori. Ora cosa facciamo? Ci indigniamo, deploriamo, condanniamo, malediciamo gli sbandati e le loro famiglie? Tutti sperano nell’intervento delle Forze dell’Ordine, come se la repressione sanasse i guasti di una società insicura e di famiglie malate o inesistenti come tali. E comunque quale repressione ci può essere al cospetto di bambini o ragazzi minorenni? La questione, evidentemente, è ben più grave e seria, come scrivevo nel 2012. Bisogna recuperare il ruolo e il valore della famiglia. Bisogna agire sulla educazione dei ragazzi, che vanno guidati all’interno di un ragionamento semplice e convincente, accogliendoli in ambienti di sana aggregazione e abituandoli alla socializzazione attraverso la frequentazione di coetanei ben educati e motivati. C’è bisogno di fare rete, di operare in sinergia perché tutti insieme, scuola, famiglia, forze dell’ordine, chiesa, istituzioni, possiamo passare dall’analisi alla terapia e aggredire il malessere di una infanzia e di una gioventù che rischiamo di perdere per la mancanza di un presente convincente e di prospettive incoraggianti. Cosa fare concretamente? Senza alcuna pretesa e con molta semplicità mi permetto di avanzare una proposta: creiamo un tavolo di lavoro, eventualmente permanente come quello per l’ordine e la sicurezza pubblica, magari con il coordinamento del Prefetto. Questa proposta ha il solo scopo di dare un segno di vicinanza ai giovani che non possiamo perdere di vista. Non abbandoniamoli al loro triste destino. Aiutiamoli a capire che con il male e con la disperazione tutto è perduto. Sosteniamoli e guidiamoli a recuperare fiducia in se stessi e nella società della quale sono la linfa, la parte vitale. Senza i giovani non c’è futuro per il nostro Paese», conclude il cardinale Sepe.