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Intervista a Viola Carofalo, portavoce nazionale di Potere al Popolo

Viola Carofalo

NAPOLI. Con una crisi astratta che esprime la gran parte della sua concretezza sui lavoratori, c’è bisogno di sinistra nel nostro paese. Per questo motivo, tra entusiasmi e polemiche, il centro sociale Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo, ha deciso di scendere in campo per le prossime elezioni politiche. Abbiamo così intervistato Viola Carofalo, portavoce nazionale della lista, che ha parlato di come le classi deboli possano essere risollevate.

L’intervista

Viola, entriamo subito nel vivo della questione. Tu, eletta portavoce di Potere al popolo perché “giovane”, “precaria” e “meridionale”: puoi dirci attualmente come questi termini possano intrecciarsi?

“Tra questi tre requisiti, ne manca un quarto: il fatto di essere donna. In un momento in cui descrivono le donne come vittime di violenza, secondo modelli prettamente maschili, oppure – in altri casi – come bisognose di protezione, ci sembrava buona l’idea che fosse proprio una donna a rappresentare una lista che ha tra i suoi punti fondamentali quello di riproporre il protagonismo di chi in questi anni è stato escluso da ogni tipo di contesto decisionale, sia politico, sia anche sociale. Quanti, negli anni della crisi, si sono trovati a subire le scelte politiche dei governi? Moltissimi. Parliamo di migranti, disoccupati, certamente, ma anche di persone “normali”, proletarie (per utilizzare un termine che molti non hanno più voglia di sentire) ma che riuscivano a sostenere la spesa di un mutuo, qualche spesa sanitaria, riuscivano a pagare le tasse universitarie dei figli… molti di loro sono finiti per strada, nel vero senso della parola. La povertà assoluta in questo paese è aumentata vertiginosamente. E non lo sappiamo perché abbiamo letto le statistiche: lo sappiamo grazie al lavoro quotidiano di tante associazioni di volontariato con le quali siamo entrati in contatto, a Napoli – certamente – ma non solo. Il soggetto sociale che intendiamo rappresentare è un soggetto precario, perché è stato vittima negli ultimi venti anni di quelle scelte che hanno rosicchiato a poco a poco i diritti conquistati dai lavoratori nei trenta anni successivi alla seconda guerra mondiale. La crisi, certo, è stata un colpo di grazia, ma è da almeno 25 anni che in Italia si parla di lotta al precariato. Lo hanno fatto i centri sociali, lo hanno fatto i sindacati di base, i coordinamenti dei disoccupati. Noi vogliamo dare voce e rappresentanza a tutto questo mondo, che non può essere più ignorato. Per quanto riguarda il meridione: certo! Esiste, ed è sempre esistita, una questione meridionale. È al meridione che la crisi e la fine del welfare state si sono fatti sentire di più, perché esisteva un tessuto sociale già critico. Ma non è un caso che da qui sia partito potere al popolo: noi abbiamo da perdere meno degli altri, e possiamo permetterci il lusso di una follia come questa. Non amo, e nessuno di noi ama l’idea di un capo politico, ma la legge elettorale ce lo impone e se la mia figura può servire a rappresentare tutto questo, ne sono contenta”.

Oggigiorno, quali sono le classi sociali più deboli? In altre parole, chi meglio rappresenta il precariato?

“Le abbiamo sotto gli occhi: i migranti, i senzatetto, ma in generale tutti coloro che non riescono più ad accedere ai servizi fondamentali, e non hanno la possibilità di pagarli… i lavoratori precari, certamente, le cosiddette partite iva che nascondono un mondo di sfruttamento e di lavoro nero, i lavoratori che figurano soci di cooperative e poi non sono altro che “stipendiati” a 500 euro al mese… ma anche il lavoro dipendente che si è precarizzato sempre di più, grazie a provvedimenti come il Jobs act, o la buona scuola… questo è il popolo a cui ci rivolgiamo e al quale vogliamo provare a ridare “potere”; potere di decidere delle proprie vite, potere di trasformare la realtà in qualcosa di più giusto, di migliore…”

Nell’attuale periodo di marasma economico, è necessario riformulare il concetto stesso di lavoro: come si propone di farlo Potere al popolo?

“Riformulare il concetto di lavoro è una necessità che non nasce ora. Il lavoro è la fonte della ricchezza sociale, non del profitto di pochi, Noi vogliamo rimettere al centro il lavoro, partendo da questa considerazione. Per questo vogliamo che il lavoro diventi un diritto e un dovere verso la società, non verso il “datore di lavoro”; per questo chiediamo lavoro stabile, garantito e sicuro, che permetta a tutti di dare un contributo e di ricevere in cambio la possibilità di una vita dignitosa, felice e stabile. Per fare questo è necessario cancellare tutte le riforme che hanno reso il lavoro sempre più precario, sempre più faticoso e disumano. Oggi di lavoro si muore, al lavoro ci si gioca la salute, e per conservare un lavoro precario spesso bisogna rinunciare alle proprie passioni e ai propri affetti. Ogni giorno subiamo solo ingiustizie, ed è necessario iniziare a dare una visione diversa delle cose, altrimenti questa situazione peggiorerà e finiremo col considerarla normale”.

L’idea di questa lista è nata dall’Ex OPG Occupato – Je so’ pazzo: come mai uno spazio sociale ha deciso di presentarsi alle elezioni?

“Perché non potevamo fare a meno di prendere parola. Il lavoro che abbiamo portato avanti come Ex OPG, la costruzione del controllo popolare sulle amministrazioni, la costruzione di progetti di mutualismo, ci ha fatto vedere una realtà che anche noi ignoravamo. Abbiamo incontrato persone e associazioni pronte a darsi da fare, con una visione dei problemi e delle soluzioni spesso più lucida di quella che avevamo noi. Non possiamo rinunciare a questa responsabilità, e non possiamo evitare di dare loro uno spazio nella prossima campagna elettorale. Esiste un paese diverso, che ogni giorno combatte contro le ingiustizie. Noi abbiamo costruito l’esperienza del nostro centro sociale insieme a loro, e abbiamo il dovere di rappresentarlo”.

Affinché il potere possa andare realmente al popolo, quale credete possa essere la giusta direzione che la democrazia debba imboccare?

“Dobbiamo rivendicare spazi di partecipazione, ridiscutere quale è il centro delle decisioni. Non possono essere le commissioni di tecnici a decidere della nostra vita, non può essere una classe politica distante dalle necessità delle persone. Dobbiamo essere noi a riprenderci il nostro spazio. Trovare spazio in una campagna elettorale è il primo passo per mostrare che il popolo è molto più consapevole delle sue esigenze e delle soluzioni. Ogni giorno ci consegnano una fotografia deprimente del paese: ci dicono che le persone sono diventate razziste, intolleranti, disposte ad assecondare il potente di turno. Noi sappiamo che non è vero, e dobbiamo dare voce a questa parte del paese che si riconosce in valori e pratiche diverse. Questo è il primo passo per costruire un potere popolare, per rivendicare spazi di democrazia. Il problema, per ora, non è entrare in parlamento oppure assumere il governo del paese, ma rafforzare le lotte che in questi anni si sono costituite: esiste in Val di Susa una comunità che resiste da venti anni al progetto della TAV, esistono comitati territoriali, esistono migranti che ogni giorno rivendicano i loro diritti, esistono lavoratori che rischiano il posto per rivendicare i diritti di tutti. La democrazia per noi è innanzitutto rafforzare e sostenere queste realtà. Entrare a gamba tesa in campagna elettorale per dare voce alle lotte è già la conquista di uno spazio di democrazia. Se ci riusciremo, potremo cominciare a contrattare condizioni di vita diverse, e magari a proporre un modello più equo di società”.

Intendete far durare il progetto anche in caso di mancata elezione? In alternativa alla mancanza di seggi negli organismi rappresentativi, come proseguirà la vostra battaglia politica?

“Certo che continueremo. Il nostro obiettivo è prima di tutto rafforzare e rappresentare le lotte, e in ogni caso continueremo a fare questo lavoro, con o senza seggi in parlamento”.

In molti non comprendono il distacco dalla lista di Grasso, Liberi e Uguali, sebbene già è appurato come, per combattere l’austerity, un soggetto unitario di sinistra non basti. Per quali ragioni avete preso così nettamente le distanze?

“Perché tra loro ci sono i responsabili di quell’erosione dei diritti che combattiamo da sempre. Come possiamo allearci con chi ha votato il Iobs act e ha ideato il pacchetto Treu che è stato l’apripista alla precarizzazione del lavoro? Come possiamo sentirci vicini a chi non ha mosso un dito contro provvedimenti disumani in materia di immigrazione? Questi sono solo alcuni esempi, potrei continuare… ma credo che la questione sia chiara… Chi sta oggi i Liberi e uguali non è un nostro interlocutore, ma è in qualche modo partecipe di un’operazione politica gestita dalle stesse persone contro le quali ci siamo mobilitati in questi anni”.

Luciana Castellina vi accusa di aver indebolito la sinistra, voi pensate il contrario. Come ultima domanda ne riciclo una ormai abusata, da Palombella rossa di Nanni Moretti: «Che cosa significa oggi essere comunisti?»

“Stare dalla parte di chi ogni giorno subisce le scelte fatte per far arricchire qualcuno sulle spalle di qualcun altro. Non saprei dirlo in modo più sintetico. Rimettere al centro questo problema, ovvero dare voce a chi è sfruttato in ogni modo, a chi ha subito un continuo processo di espropriazione di ricchezza, vuol dire essere comunista. È necessario proporre un altro modello di società, in cui nessuno sia prigioniero di un lavoro scadente, di logiche di esclusione, e del potere di pochi sulla vita di molti. Questo vuol dire rafforzare la sinistra, o meglio, vuol dire costruire il potere popolare”.

 

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