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Le differenze di genere negli studi e nel mondo del lavoro

Come riporta uno studio dell’Osservatorio sui Conti Pubblici italiani (Ocpi), esistono differenze di genere negli studi e nel mondo del lavoro. “Le studentesse hanno voti migliori degli studenti durante tutto il percorso scolastico e all’università. Tuttavia, questo vantaggio non si concretizza dopo l’ingresso nel mondo del lavoro: le donne hanno tassi di occupazione e salari minori rispetto a quelli dei loro colleghi uomini. Questi effetti sono in parte spiegati dalle esperienze universitarie, poiché le studentesse tendono a concentrarsi nelle aree disciplinari che danno accesso a professioni con remunerazioni più basse. Tuttavia, la maggior parte del divario è spiegata da differenze salariali in ogni settore disciplinare. Queste possono essere spiegate da scelte lavorative differenti (lavori flessibili o contratti part-time), ma non è possibile escludere effetti dovuti a condizionamenti sociali”.

L’uguaglianza di genere negli studi e nel mondo del lavoro

L’Agenda 2030 per uno sviluppo sostenibile ed il Pnrr hanno posto quale obiettivo principale l’uguaglianza di genere. Il traguardo, in considerazione della situazione italiana, appare decisamente lontano. Infatti, secondo un recente studio dell’Ocpi, il tasso di partecipazione femminile in Italia è decisamente inferiore (di circa 15 punti) rispetto alla media europea (53,1 contro il 67,4 per cento). Anche il tasso di occupazione femminile risulta essere decisamente inferiore rispetto alla media europea (nello specifico, la differenza si attesta al 18,5 per cento nella fascia d’età 15-64 anni). I dati registrati dall’Ocpi mostrano le ottime statistiche circa le performance femminili inerenti allo studio, sin dalla scuola secondaria di primo grado. Come riporta il documento analizzato, a queste statistiche non sembra necessariamente corrispondere un vantaggio nel mondo del lavoro.


Le performance femminili durante gli studi della scuola secondaria

Lo studio dell’Osservatorio Cpi raccoglie dati a partire dalla scuola secondaria di primo grado, ovvero dalla scuola media. Già in tenera età, infatti, le studentesse collezionano risultati migliori rispetto ai ragazzi. Al termine della scuola media, il 43,1 per cento delle ragazze raggiunge risultati eccellenti, a fronte del 31,6 per cento degli studenti di sesso opposto.

La stessa proiezione è valida anche in riferimento al termine della scuola secondaria di secondo grado, ove le studentesse conseguono il diploma in proporzione maggiore rispetto ai ragazzi (53 per cento contro appena il 47). Inoltre, la tendenza si riconferma anche sui voti. Oltre il 35 per cento delle studentesse riesce a raggiungere un voto all’esame di maturità ricompreso tra il 90 ed il 100. Mentre, per i compagni di sesso opposto la proiezione è sensibilmente più bassa (appena il 22,9 per cento). Il trend è riconfermato anche n merito al termine degli studi senza bocciature. Oltre ad avere un voto medio maggiore di cinque punti (di circa 84 su 100), le ragazze tendono a terminare gli studi “con meno bocciature” rispetto agli studenti. Le ragazze, infine, risultano particolarmente inclini a proseguire gli studi (l’80 per cento intende seguire corsi universitari contro i 65 per cento dei maschi).

L’eterogeneità dei percorsi formativi e le competenze diverse

Come rimarca l’Osservatorio Cpi, però, “i percorsi formativi della scuola secondaria di secondo grado non sono  omogenei e portano ad acquisire competenze diverse. Tra i diplomati nei licei e negli istituti professionali, rispettivamente il 67 e il 56 per cento sono ragazze, mentre la loro proporzione cala al 38 per cento negli istituti tecnici. Questo in parte contribuisce a generare un divario di competenze informatiche spendibili nel mondo del lavoro: ad esempio, i ragazzi che ritengono di avere buone conoscenze in linguaggi di programmazione, database e realizzazione di siti web sono in proporzione di più rispetto alle ragazze, le quali ritengono di avere migliori competenze linguistiche rispetto ai compagni. Ciò è confermato dal fatto che le ragazze che ottengono una certificazione linguistica sono il 41,4 per cento, rispetto al 31,2 per cento dei coetanei”.

Le differenze in ambito universitario

Anche in ambito accademico, le performance universitarie delle studentesse risultano maggiormente calzanti rispetto a quelle espresse dagli studenti, da un punto di vista sia quantitativo che qualitativo. Il dato ripreso dall’Osservatorio Cpi è stato formulato da Almalaurea nel 2020. D’altro canto, lo stesso studio spiega quanto l’incidenza delle laureate si attesti intorno al 23,7% dell’intera popolazione, mentre per gli uomini risulta essere soltanto al 17,2 per cento. Dunque, ogni anno il numero di studentesse che raggiungono la laurea è decisamente maggiore rispetto a quello dei laureati (170.695 contro 129.077 nel 2020), che addirittura terminano sempre più gli studi fuori corso (45 per cento dei casi contro il 40 per cento delle ragazze). Le studentesse, poi, si laureano con voti più alti (104 su 110 contro 102 su 110 per i maschi) e “aderiscono in maggior proporzione a tirocini curriculari o lavori riconosciuti dal corso di laurea”.

 Differenze retributive di genere nel mondo del lavoro

Secondo l’Ocpi “Il salario medio per una laureata magistrale a 5 anni dalla laurea è di 1403 euro netti mensili, mentre un laureato maschio guadagna in media 1696 euro, generando una differenza di 293 euro, pari al 21 per cento del salario femminile”. Cosa causa questa differenza?

Differenze settoriali

Come rimarca il medesimo documento, una prima causa è da ricercarsi nei settori di impiego. Con la Tabella riportata nel paragrafo,  l’Ocpi “ha mostrato la proporzione di neolaureati magistrali (biennale, anno 2015) e lo stipendio medio a 5 anni dal conseguimento del titolo per ogni settore disciplinare, ordinati per salario medio”. Ovvero, nei settori maggiormente remunerativi è altresì maggiore la presenza di laureati di sesso maschile, mentre le laureate sembrano virare su settori meno redditizi.

Ciò produce difformità nei plurimi settori del mondo del lavoro, a causa di quella sopracitata differenza retributiva di 293 euro, in favore di lavoratori di sesso maschile. Il discrimen, secondo gli studi condotti dall’Ocpi , è sicuramente riconducibile al fenomeno della ‘segregazione occupazionale’, presente in tutti i paesi maggiormente avanzati. Ancora, la differenza potrebbe essere generata, oltre che da scelte individuali, da “stereotipi e valori culturali impliciti”. Ciò favorisce “una categorizzazione degli impieghi, che ha effetti negativi nel tempo. Se le donne tendono ad essere discriminate in un settore, spesso si specializzano meno e scelgono altri tipi di carriere, rafforzando dunque questa differenziazione”.

“In aggiunta, la minor rappresentazione femminile in certi settori è rafforzata dalla cosiddetta discriminazione statistica: nei casi in cui il datore di lavoro non abbia sufficienti informazioni rispetto all’individuo da assumere, può inferire le sue caratteristiche – come la sua produttività – utilizzando le caratteristiche medie del gruppo sociale a cui appartiene. Se le donne sono poco rappresentate in una specifica area disciplinare e in media hanno minore esperienza lavorativa rispetto agli uomini, possono essere penalizzate rispetto ad un lavoratore maschio che ha la stessa carriera lavorativa”, rimarca il documento.

 Le differenze ed i fattori a parità di settore

Lo stesso studio condotto evidenzia quanto “la rimanente parte della differenza salariale a 5 anni dalla laurea magistrale, quantificabile in circa 170 euro mensili (il 12 per cento della retribuzione femminile)”, rifletta differenze a parità di settore disciplinare. Qui, “il divario di genere a favore dei maschi è positivo per tutti i settori e tende ad aumentare nel corso del tempo (ad un anno dalla laurea il suo valore medio è di circa 78 euro).


Sempre l’Ocpi chiarisce che tali differenze sono proporzionali alla presenza di vari fattori. Il primo sarebbe riconducibile ad una sostanziale carenza di strutture adeguate per la cura dei figli. L’assenza di tali strutture impone alle madri di occuparsene in maniera prevalente, accantonando la continuità della carriera. Ciò, chiaramente, incide in maniera cospicua anche sulla stessa retribuzione. Ma, come ribadisce ancora l’Ocpi  “è improbabile che questi effetti siano significativi a pochi anni dalla laurea, visto che l’età media del primo figlio in Italia è di circa 31 anni. Potrebbe però essere rilevante il fatto che le studentesse scelgano impieghi che garantiscano una maggiore flessibilità, anche al prezzo di una retribuzione più bassa, a causa di condizionamenti sociali”.

La scelta dei datori di lavoro

“Le laureate magistrali a tre anni dal conseguimento del titolo sono impiegate con contratti part-time nel 21 per cento dei casi, contro l’8 per cento per i colleghi maschi. I laureati maschi lavorano mediamente 5,4 ore in più alla settimana rispetto alle femmine (rispettivamente 39,7 e 34,3 ore, in media). Naturalmente è possibile che queste differenze non riflettano i desideri delle lavoratrici ma bias culturali per cui lavoratori maschi sono preferiti, in termini di opportunità di lavoro alle lavoratrici. In generale, i datori di lavoro potrebbero preferire lavoratori uomini alle lavoratrici nei settori più remunerativi, a causa di condizionamenti sociali”, ribadisce lo stesso studio.

Inoltre, anche i datori di lavoro potrebbero essere condizionati da alcune tipologie di stereotipi, della stessa tipologia di quelli che influenzano la scelta del settore occupazionale. Il documento dell’Ocpi riporta alcuni esempi di stereotipi rilevanti in questa categoria di scelte. “Ad esempio, esiste il pregiudizio che i costi non-salariali legati all’assunzione delle donne siano maggiori rispetto a quelli degli uomini. Infine, la discriminazione potrebbe essere determinata dall’esistenza di network lavorativi tipicamente maschili, i quali tendono a proteggersi dall’accesso delle lavoratrici”.

Proprio per questo, la risoluzione di questi problemi,  auspicata proprio dall’Ocpi, prevede alcuni fondamentali interventi. “In primis, è necessario garantire maggiore continuità lavorativa alle donne durante e dopo la maternità – ad esempio con maggiori asili nido o estendendo il congedo parentale per i padri, in modo da permettere un maggiore condivisione dei compiti familiari. In secondo luogo, è necessario scardinare il sistema radicato di stereotipi e pregiudizi di genere per garantire un accesso equo in tutti i settori disciplinari”.

 

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