Curiosità

La lingua napoletana: i proverbi che caratterizzano il folklore linguistico partenopeo

Il napoletano, più che un dialetto, è riconosciuto nel mondo come una vera e propria lingua. L’avvento di numerosi popoli nella bella città di Napoli, con i loro usi, costumi e tradizioni, hanno determinato un “Meltin Pot” culturale, una commistione che si riflette anche nella storia dello stesso linguaggio e nei proverbi che lo rendono più colorito. Ma quali sono questi proverbi?

I proverbi napoletani più famosi della tradizione

 

 

 

  • A capa ‘e sotto fa perdere ‘a capa ‘e coppa“:  questo proverbio allude al fatto che spesso, quando siamo animati da pulsioni sessuali, queste ultime soppiantano totalmente la capacità di raziocinio.
  • “Acqua ‘e maggio, parole ‘e sagge”: tale frase ci insegna che, spesso, gli antichi proverbi sono più affidabili delle stesse previsioni meteorologiche. L’espressione suggerisce il fatto che a maggio ci sia una probabilità che possano verificarsi delle precipitazioni tanto alta quanto lo è la probabilità che dalla bocca di un saggio possano uscire importanti massime di vita.
  • “Adda venì baffone“:  questa esclamazione viene impiegata frequentemente nel corso di situazioni di particolare e generale scontento. “Il baffone” di cui tutti auspicavano la venuta, durante la seconda guerra mondiale, quando Napoli venne assediata dai nazisti, era “Josef Stalin“ di cui il popolo partenopeo ne ignorava le malefatte e lo vedeva, al contrario, come personificazione della libertà stessa, nella sua guerra contro un nemico comune,speravando che un giorno sarebbe venuto per liberare anche il loro popolo. Oramai divenuto una figura astratta, senza un concreto riferimento, ma l’intento è sempre quello di aspettare l’avvento della figura di un “salvatore” che venga a mettere le cose a posto.
  • A cuoppo cupo poco pepe cape” vero e proprio scioglilingua costituisce il corrispettivo napoletano di un semplice “sotto la panca la capra campa”, ma, in questo caso, non si tratta soltanto di un esercizio per la lingua. Letteralmente si può tradurre con “in un cartoccio stretto può entrare poco pepe” ed esorta a non perdere tempo nel cercar di far ragionare una persona ignorante e mentalmente chiusa.

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  • ‘A Madonna t’accumpagna“: con la quale si augura ai propri cari di essere, appunto, sorvegliati e avere un occhio di riguardo da parte della Madonna. Nella seconda metà del ‘700 il re Ferdinando IV per contrastare la criminalità e per combattere il buio pesto che c’era per le strade di Napoli di notte, decise di creare un’illuminazione artificiale proprio per osteggiare i banditi. Così si iniziarono ad installare alcuni lampioni nei pressi di Palazzo Reale e nelle strade più importanti della città. Questo non risolveva il problema e così padre Gregorio Maria Rocco presentò al re una proposta: “Maestà, date a me la licenza dell’illuminazione della città. E state tranquillo, non farò spendere alle casse del Regno nemmeno un ducato”. Re Ferdinando gli diede il permesso. Prese un dipinto della Madonna trovato nei sotterranei del monastero del Santo Spirito, nella zona di piazza Plebiscito, allora chiamata Largo Palazzo e ne fece fare centinaia di copie a colori. Le fece sistemare in tante edicole votive sparse per Napoli dicendo: “O napoletani la Madonna che sta nella vostra strada è uguale a quella delle altre strade di Napoli. Ora, però, se voi volete veramente bene alla vostra, dovete tenerla sempre illuminata.

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  • A monaca d’ ‘e Camaldoli: muscio nun le piaceva e tuosto le faceva male“:  sono molto frequenti nei detti e nei proverbi napoletani le allusioni di natura sessuale e la commistione di elementi “sacri e profani”. Il sesso, in particolare, data la capacità dell’argomento di stuzzicare l’attenzione, era impiegato per poter rendere in maniera più immediata anche i concetti più complessi, facilitandone così la comprensione anche dai meno eruditi. Questo detto si riferisce ad un tipologia di donna particolarmente lunatica, che non sa quello che vuole. Il luogo citato “Camaldoli” è un rafforzativo, utilizzato per conferire maggior enfasi e “pathos”. Tuttavia a Camaldoli, a Napoli, risulta esserci davvero un monastero l’Eremo dei Camaldoli. Risalente al XVI secolo ospita ancora oggi le suore devote a Santa Brigida, le Brigidine. Quindi, non è da escludere che, magari, la promiscua monaca cui la frase fa riferimento, fosse realmente esistita.
  • A Santa Lucia nu passe ‘e gallina, a Sant’Aniello nu passe ‘e pecuriello”: Santa Lucia è considerata la protettrice degli occhi e della vista, inoltre in alcune provincie del Nord Italia è considerata al pari di una befana. Infatti il 13 dicembre, giorno in cui si celebra la sua santità, i bambini solitamente aspettano che la martire in groppa a un asinello consegni loro dei doni. Sant’Agnello è considerato il protettore delle partorienti e dei marinai. Il detto fa riferimento al calendario Giuliano, cioè quello solare in cui Santa Lucia coincideva con il giorno più breve dell’anno e a cui seguivano inevitabilmente giornate con più ore di luce.
  • Alla sanfasò: deriva dal francese sans façon letteralmente sta per “senza maniere”, significa, dunque, “senza cerimonie” “alla buona”, “a come viene”.
  • “Aumm aumm”: da solo, il termine “Aumm”, non vuol dire assolutamente nulla. La locuzione onomatopeica “aumm aumm” al contrario, si riferisce, probabilmente, alla bocca che si chiude. Allude, infatti, ad un qualcosa di losco che deve essere tenuto celato. Tuttavia, si può scorgere un’ambivalenza nel significato quando va a riferirsi ad un’azione, non per forza negativa o criminale, ma fatta velocemente.
  • “Avimmo perduto a Felippo e ‘o panaro”: Raffaele Bracale fa risalire l’espressione ad un’antica farsa pulcinellesca di Antonio Petito nella quale, un nobile di nome Pancrazio, dopo aver affidato una cesta colma di leccornie al suo servo Filippo, si dirige verso casa aspettando l’arrivo dell’uomo. Il servo, però, dopo aver divorato e dispensato ai suoi amici e all’intera città, il contenuto della cesta, decide di darsi alla fuga. Pancrazio, profondamente amareggiato realizza, così, di aver perso sia il cesto che il servo. La frase si riferisce a quelle sfortunate situazioni in cui più avvenimenti spiacevoli vanno a coincidere.
  • bbuò trasì dinto ‘a scazzetta?: la “scazzetta” altro non è che un particolare tipo di copricapo utilizzato dai preti e dagli uomini di chiesa. Ciò che nascondeva la “scazzetta” non era visibile, se non a colui che la indossava. Tale espressione viene utilizzata ancora oggi per descrivere una tipologia di persona particolarmente ficca naso ed impicciona.
  • Caporà è muort alifante” è una tipica espressione napoletana utilizzata nei confronti di qualcuno che continua a vantarsi di un vantaggio che prima aveva ed ora non ha più, il classico “pallone gonfiato”. L’espressione si ispira ad una particolare vicenda in cui un elefante venne affidato ad un vecchio soldato, il quale si vantava assiduamente per l’incarico ricevuto, riscuotendo numerose e cospicue mance da coloro che visitavano i giardini reali di Portici, luogo in cui era appunto esposto l’animale. Dopo la morte del pachiderma, avvenuta pochi anni dopo, il caporale continuò ad avere la stessa condotta e a darsi arie. Per questo, venne raggirato e schernito dal popolo partenopeo con questa colorita espressione.
  • Ce manca l’asso ‘o doje e ‘a tuvaglia ‘e Fiandra” ad ispirare il detto è sicuramente il gioco del “tressette” si riferisce ad una situazione in cui mancano le fondamenta essenziali. “‘A tuvaglia ‘e Fiandra” servono ad esasperare il concetto per renderne una maggiore “drasticità”.

tresette

 

 

 

  • “’A carne ‘a sotto e ‘e maccarune ncoppo”: letteralmente “la carne sotto e i maccheroni sopra”. In cui tutto è il contrario di tutto. Fa riferimento ad una situazione particolarmente paradossale.

spaghetti

  • “cu ‘e pacche dinto’a ll’acqua”: si riferisce ad una condizione di miseria assoluta, quando si ha toccato il fondo. A Napoli c’è sempre stata la convinzione, errata ed esagerata che i pescatori fossero i lavoratori più squattrinati, la pesca veniva ritenuta l’ultima spiaggia per chi aveva perso tutto. Ed è stato proprio questo mestiere ad ispirare il detto.
  • “Chillo tene l’arteteca”: tipico modo di dire che indica una persona che non si riposa mai,poiché sempre in attività.
  • “tutto il cucuzzaro:” la “cocozza” è la zucca e questa espressione ,estesa in tutto il Sud Italia e non solo a Napoli, trae ispirazione da un antico gioco praticato dai bambini il “gioco del cucuzzaro”. Viene utilizzata per intendere “tutto quanto” o “tutti quanti” in riferimento sia a persone che a cose.

zucca

 

  • “Comme facette Scioscia mettette ‘o culo a viento ‘e terra e sciusciaje”: tradotto letteralmente: “Come fece (un tal) Scioscia mise il sedere a vento di terra e soffiò”. L’espressione si riferisce ad un marinaio, chiamato Scioscia, che bloccato in mare dal vento, per dare la spinta alla nave si aiutò soffiando col sedere e facendo da forza motrice. Di questo detto, che si riferisce ad una persona stupida e sciocca, in realtà esistono numerose varianti: “comme facettero l’antiche, ca se magnajeno ‘a scorza e rummanettero ‘a mullica“ oppure, ancora “Comme facette Scioscia, ca se magnaje ‘a tosta e rummanette ‘a moscia”. Si tratta di un’antica espressione usata per schernire gli stolti che hanno un atteggiamento sbagliato e addirittura autolesivo.
  • “è successo un 48”: Il numero “48” si usa per fare riferimento all’anno 1848, caratterizzato da moltissime rivolte popolari borghesi, comunemente identificate con “rivolte del ’48” non è solo simbolo di caos, ma di caos accompagnato al cambiamento.
  • …e buonanotte ai suonatori”: questo modo di dire non ha origini prettamente napoletane, anzi, viene riconosciuto in quasi ogni regione d’Italia, ma a Napoli viene usato molto più frequentemente ed è arrivato ad assumere connotati e significati ben più complessi. Oltre al mettere fine ad una discussione o ad un accordo, “buonanotte ai suonatori” nella tradizione partenopea allude spesso una certa forma di rassegnazione, una resa di fronte ad una situazione che non può essere più cambiata nonostante gli sforzi. La scelta di “impiegare” la figura dei musicisti è facile da capire, infatti, quando la musica finiva e persino i suonatori potevano andare a dormire, significava che la festa o la serata erano definitivamente concluse e non si poteva far altro che tornare a casa.

suonatori

  • “Ê viécchie lle próre ‘o cupierchio”: la traduzione più comune sarebbe “Ai vecchi prude il sedere Tuttavia, abbiamo dato per scontato che il termine “cupierchio” indichi il sedere: nella nostra lingua viene spesso usato con questo significato, ma, in questo caso, potrebbe indicare un’altra zona intima. Il prurito spesso viene usato, a Napoli, per definire un “chiodo fisso”, un pensiero costante ed invadente. Questo prurito intimo dovrebbe rappresentare la pulsione sessuale insoddisfatta, la voglia costante dei “vecchi rattusi”.
  • E che d’è ‘stu quatto ‘e Maggio?: dall’usanza di effettuare i traslochi in città il 4 di questo mese o quatto ‘ e Maggio divenne, per Napoli, il giorno dell’ammuina per eccellenza, con tantissime persone intente a ricercare la casa che meglio si confacesse alle proprie esigenze e disponibilità economiche. Si riferisce pertanto tanto ad una situazione particolarmente caotica.
  • “E’ fernuta ‘a zezzenella”: tutto ciò che percepiamo bello e ristoratore è destinato ad avere una fine e non può durare in eterno e quindi, alla lunga, tutte le “zezzenelle” si esauriscono. Non è difficile capire che “zezzenella” è diminutivo di “zizza” ed è quindi una “piccola mammella”. Il detto trae origine dall’atto della mungitura delle mucche.
  • “Fà acqua ‘a pippa”: letteralmente “la pipa fa acqua”, un modo ironico per definire una persona in uno stato miserevole. Le interpretazioni sono molteplici, può far riferimento ad una pipa talmente malmessa da generare vapore e far fuoriuscire l’acqua dalle intercapedini. O ad una pipa tenuta da una persona talmente povera da non potersi permettere il tabacco, essendo così costretto a fumarsi l’acqua.
  • Non tutti sanno però che la “pipa” è anche una piccola botticella spagnola nella quale si era soliti conservare liquori e in qualunque casa, napoletana e non, l’uomo deve poter offrire dei liquori agli ospiti. In questo caso “fà acqua ‘a pippa” indicherebbe una persona talmente povera da non potersi permettere di riempire la pipa con liquori, ma solo con dell’acqua. Oppure ancora, la “pippa” in questione, secondo alcuni, potrebbe anche alludere al fallo. L’uomo preso di mira, sarebbe definito così vecchio o malandato, da non essere più capace di produrre liquido seminale.
  • “Fà ‘e cofecchie”: ha una doppia accezione e fa riferimento, in primo luogo, al tradimento coniugale che una persona compie nei confronti del proprio compagno/a ed, in secondo luogo, ad una persona che fa pettegolezzi. Si sostiene che il termine derivi dall’aggettivo greco “kóbalos”, traducibile con i sostantivi “furbo” e “imbroglione” o addirittura con i verbi “ingannare” “beffare” “raggirare” e “burlare”.

sparlare

  • “Facesse na culata e ascesse ‘o sole!”: un’esclamazione piena di rammarico pronunciata da chiunque noti che le proprie azioni, fin dall’inizio, non sono mai accompagnate dalla buona sorte.
  • “Fatte benedicere ‘a nu prevete ricchione”?: utilizzato quando si ha la sensazione che la sorte si accanisca contro la propria vita. La scelta della figura del prete (anticamente era più frequente l’impiego del “monaco”) è da ricercare nel fatto che, questi ultimi, fossero depositari di massime di vita, mentre la presenza del termine “ricchione” è giustificata dal fatto che gli omosessuali fossero sicuramente più abituati ad affrontare situazioni spiacevoli, dal momento che, a quel tempo, non erano ben visti e che quindi i consigli avrebbero potuto essere ancora più utili e pertinenti.
  • “figlio ‘e ‘ntrocchia” : la locuzione di matrice partenopea ha una connotazione positiva e viene impiegata per descrivere qualcuno (soprattutto bambini) molto sveglio. Il termine letteralmente significa “figlio di una meretrice” più che meretrice in questo caso possiamo si può impiegare il termine “lucciole”: nelle notti più fredde le prostitute tendono a riscaldarsi accendendo falò a bordo strada, cosa che aiuta anche a mettere in mostra la mercanzia. Questa abitudine ed i piccoli bagliori che ne derivano hanno valso la similitudine con i luminosi insetti

tarallucci e vino

  • finisce “a tarallucci e vino”: questa espressione, meglio di qualunque altra, riesce a definire la quiete che arriva dopo un litigio, trae origine dall’antica tradizione contadina. In genere, quando arrivavano ospiti, sia attesi che inaspettati, il padrone di casa organizzava quello che oggi definiremmo un aperitivo a base di prodotti semplici come i taralli ed un buon bicchiere di vino. Il detto si è evoluto, soprattutto in ambito giornalistico, assumendo anche una connotazione negativa. Facendo riferimento ad accordi politici o gravi crisi dire che la cosa è finita a tarallucci e vino significa che è avvenuto un accordo sottobanco, un insabbiamento.
  • “Giacchino facette ‘a legge e Giacchino fuje acciso“: riferito a chi viene punito con una sanzione o con una pena di cui lui stesso è stato il promotore o addirittura il fautore. Gioacchino Murat, Re di Napoli, che fu ucciso a Pizzo Calabro il 13 ottobre 1815 con l’applicazione della legge del 1808, emanata proprio da lui contro chiunque avesse attentato al legittimo potere costituito.
  • “Jí a ppuorto pe na rapesta”: vuol dire letteralmente “recarsi al porto per comprare una rapa” simbolicamente allude all’impegnarsi in maniera smisurata ed impiegare immani energie per raggiungere uno scarso risultato.
  • “Jì truvanno a Cristo dint’ e lupine” (o anche “dint’ a la pina”):  una frase che si riferisce a colui che cerca sempre il celebre “pelo nell’uovo”.
  • “L’Asteco chiove e a finestra scorre”: letteralmente “il tetto perde acqua e entra acqua dalla finestra” si riferisce al verificarsi contemporaneo di più situazioni avverse .
  • “mandare a carte 48” qualcuno:  di origine napoletana viene usato oggi in gran parte d’Italia ed ha vari significati: mandare al diavolo, mandare in rovina, sconvolgere, far perdere tempo ed, in un’accezione moderna, distruggere o uccidere. Una prima origine si può ricavare dal gioco della “Scopa”. “Gli esperti delle carte conoscono una strategia che prende il nome di “regola del 48”: si tratta, in poche parole, di ricordare le carte prese singolarmente dall’avversario a terra e di giocare tenendo in conto ogni singola mossa dell’altro. Un sistema complesso che richiede grande memoria e grande impegno. In questo caso “mandare qualcuno a carte 48” significa farlo invischiare in un qualcosa di complesso e noioso.
  • “Mannnaggia bubba”:  nella tradizione napoletana la bestemmia non è contemplata. Era necessario che nel parlato, quindi, ci fosse un “capro espiatorio” che sostituisse le divinità da maledire e questo capro fu trovato in un certo Bubbà: una figura, ormai mitica, che bazzicava i vicoli di Napoli di secoli fa. La tradizione popolare ritiene che Bubbà fosse un personaggio senza scrupoli, dedito a qualunque forma di truffa e azione socialmente poco accettata.
  • “Mannaggia ‘a marina”: l’espressione “mannaggia” è una contrazione del napoletano popolare della frase “male nn’aggia”, come dire: “ne ricavi male, ne abbia sventura” ed è usualmente adoperata per introdurre un’imprecazione generica, che in questo caso ha a che fare con la marina. La locuzione nacque nel 1860, per bocca di Francesco II di Borbone, il quale imprecò contro la marina del Regno, quando seppe dello sbarco di Garibaldi e dei Mille sulle coste siciliane.
  • “Mannaggia ‘o sangue della colonna”: una spiegazione popolare vuole che la colonna in questione sia quella alla quale gli antichi romani legavano i condannati alla fustigazione: quindi imprecando contro “‘o sango d”a culonna” si impreca contro il sangue di Gesù, colato sulla colonna della flagellazione durante la Passione. Un’altra versione il detto deriverebbe dalla colonna infame, situata nei secoli scorsi nei pressi di Castel Capuano e dove venivano ridicolizzate le persone che non riuscivano a pagare i debiti.
  • “Mantené ‘o carro p’ ‘a scesa”: fa riferimento alla fatica alla quale bisognava sottoporsi per trainare un carro, su una strada irregolare e piena di dossi. Metaforicamente allude al fatto di non perdere la calma in caso di difficoltà ed anche al saper affrontare queste difficoltà senza lasciarsi sopraffare da esse.
  • “O marchese”: l’origine di questa espressione è molto semplice: i marchesi erano soliti indossare delle palandrane di colore rosso vivo per distinguersi dal popolo e sottolineare il loro rango nobiliare. C’è un rimando, dunque, al colore rosso. Oggi questo modo di dire è abbastanza inusuale, anche se ce ne sono tantissimi per riferirsi alle mestruazioni.
  • “Me veco pigliate d”e turche”: espressione utilizzata dagli abitanti di Torre del Greco per alludere ad un momento di estrema difficolta. La vocazione marinara del popolo torrese è molto antica ed era praticata già nel XVI secolo dalla maggior parte degli abitanti. Questi ultimi erano gli unici che navigavano anche in condizioni di pericolo estremo e, già a partire dalla metà del 1500, quando la pesca del corallo si effettuava soprattutto sulle coste salernitane, essi restavano spesso vittime dei corsari barbareschi, pirati di nazionalità turca, che, nel 1558, con una flotta di 120 galee, con a capo il pascià Mustafà, devastarono i paesi del golfo di Napoli, da Punta Campanella fino a Torre del Greco, catturando più di dodicimila abitanti.
  • Napoli e 36 casali”: si riferisce ad una persona che va sempre in giro.
  • “‘A neve dint’ ‘a sacca”: iperbole che letteralmente significa “avere la neve in tasca” e si usa per designare una persona che ha molta fretta, non ben predisposta a fermarsi per scambiare quattro chiacchiere, come se dovesse raggiungere una meta, un luogo nel più breve tempo possibile, evitando, in questo modo, di far sciogliere il ghiaccio in tasca.
  • “Dicette Pulecenella: nu maccarone vale cchiù ‘e ciente vermecielle”: significa che, spesso, una persona capace, vale più di tante altre che, al contrario, non lo sono. La parola “maccaroni” nella tradizione partenopea odierna si estende a tutti i formati di pasta, precedentemente si riferiva principalmente agli spaghetti. I “vermicielli”, appunto, erano una tipologia di spaghetti più sottili, utilizzati da spezzati, per le preparazioni più semplici.  Spesso detti e proverbi vengono preceduti da un “dicette” accompagnato da qualche nome o personaggio conosciuto e di rilievo nel folkrore partenopeo. Conferisce maggior enfasi all’affermazione con l’intento di “rafforzare” il messaggio che si vuole esprimere.
  • “Nun fa’ ‘o Zeza”: uno degli innumerevoli modi di dire di cui i napoletani facevano e fanno, tuttora, uso per potersi prendere gioco, con disprezzo, di una determinata categoria di persone. Nel caso in cui si faccia riferimento ad un uomo, la locuzione esorta quest’ultimo a smetterla di comportarsi in maniera falsa e scorretta. Per quel che riguarda invece le donne il termine “Zeza” costituisce il “corrispettivo” italiano di “oca” e fa pertanto riferimento ad una persona piuttosto frivola. Il termine è tratto dalla tradizione delle maschere napoletane, “Zeza” è, infatti, la moglie di Pulcinella.
  • “nun mettere ‘o ppepe nculo ‘a zoccola“: si usa per non alimentare dissapori, come si potrebbe dire “ non mettere carne a cuocere”
  • “Nun sfruculia’ ‘a mazzarella ‘e San Giuseppe”: Il detto esorta a non mettere troppo alla prova la pazienza altrui, esercitando, incessantemente, una condotta scorretta nei confronti delle persone, poiché, prima o poi anche il più gentile arriverebbe a stancarsi e a reagire. Da qui il parallelismo con “San Giuseppe” da sempre ricordato come un signore anziano di una bontà estrema e squisita. Si potrebbe dire, in soldoni, possa trattarsi del corrispettivo italiano del detto “Non tirare troppo la corda che prima o poi si spezza”.
  • “Paraustielli”: tale termine, ormai poco diffuso, delinea la figura di un individuo ipocrita, dedito a raccontare un mucchio di bugie per poter giustificare la propria condotta becera e tirare l’acqua al suo mulino, per così dire, arrampicandosi sugli specchi.
  • “O cchiù bunariello tene ‘a guallera e pure ‘o scartiello”: serve a rappresentare un gruppo di persone, particolarmente inette e inadeguate, di cui certamente non spicca l’intelligenza o un qualche tipo di abilità.
  • “Muccaturo”: letteralmente significa “fazzoletto”, il termine si origina dalla derivazione del verbo “muccare”, ovvero, soffiarsi il naso. Da moccaturo deriva il lemma “moccoso” letteralmente “bambino”. I bambini, infatti, mentre piangono, tirano su con il naso. Il termina si riferisce anche ad una persona particolarmente immatura e con atteggiamenti infantili.
  • “‘O pata pata ‘e ll’acqua!!!”: Una forma onomatopeica che suggerisce l’arrivo imminente di un acquazzone. L’origine etimologica si fa risalire al termine greco antico “parapatto“, ovvero spargere tutt’intorno, ma alcuni pensano derivi dal suono onomatopeico della pioggia battente “pat pat”.
  • “Ogne gghiuorno è taluorno”: i riferimenti del detto sono molteplici, in generale, suggerisce la reiterazione continuata e costante di una situazione, di una circostanza o di un avvenimento. Le tasse, per cominciare, possono essere definite “taluorno”, poiché bisogna sempre pagarle e non si smette mai di farlo. Oppure può accompagnarsi ad un individuo che agisce sempre alla stessa fastidiosa maniera che, per esempio, continua imperterrito a parlare di un argomento poco gradito.
  • “O trenta ‘e maggio ‘a vecchia mettette ‘o trapanaturo ô ffuoco”: letteralmente significa “La vecchia, il trenta maggio, mise l’aspo sul fuoco”, in cui “l’aspo” è l’arnese di legno, a forma di scheletro di ombrello, adoperato da chi tesse a maglia, per arrotolare il filo e ridurlo in matasse, per poi riporlo. Mantenendo al centro il bastoncello di legno, con due mani si compie il tipico movimento di chi arrotola, tra mano e gomito, il filo, di chi “annaspa”. In sostanza, quindi, parla di un’anziana che ha dovuto ardere l’aspo per far calore, il trenta maggio, a causa di un brusco calo delle temperature. Parla di un affaticamento inutile, un impiego e spreco di forza che si sarebbe potuto risparmiare. Trasposto all’eccessiva fretta che abbiamo, nel momento in cui siamo a fine maggio e coi primi caldi, cerchiamo di mettere da parte gli indumenti pesanti, senza prendere in considerazione i possibili cambi di temperatura.
  • Pare ‘a fraveca ‘e San Pietro”: letteralmente il detto significa “sembrano i lavori di ristrutturazione della basilica di San Pietro”. Ciò allude al fatto che a Napoli, spesso, i tempi per i lavori di ristrutturazione edilizia monumentale o per la costruzione di opere pubbliche, come ad esempio la metropolitana, sono molto lunghi.
  • “Pare ‘a sporta d”o tarallaro”: letteralmente significa “sembri la cesta del tarallaro” che si usa per definire la figura di una persona sempre in movimento, come faceva appunto, tempo fa, il venditore di taralli, distribuendo nelle sua cesta di vimini intrecciati i famosi taralli “nzogna e pepe.
  • “Parlare giargianese”: allude ad un modo di parlare totalmente incomprensibile. “Giargianese” ha una connotazione dispregiativa e significa “straniero” o “imbroglione” e veniva utilizzato in riferimento ai commercianti lucani o musicisti ambulanti.
  • “Parlare tosco”: l’espressione napoletana, ormai caduta in disuso, ha un significato ambivalente. In primo luogo allude ad un modo di parlare eccessivamente ridondante e forbito, tanto da risultare incompreso e oscuro da parte di chi ascolta. Il termine “tosco” non deriva, come si può pensare, da toscano, bensì deriva da “toske”, parola albanese che indicava il difficile linguaggio di una popolazione dell’Albania di religione musulmana. Nel secondo caso il termine fa riferimento ad una persona che richiede un esagerato compenso per le sue prestazioni lavorative, con l’intento di truffare. Un personaggio che può essere quasi considerato come un vero e proprio ladro, con cui si sconsiglia intraprendere rapporti, specialmente dal punto di vista economico.
  • “Piscià acqua santa p”o velliculo“: letteralmente “urinare acqua santa dall’ombelico” è un detto che mira a prendersi gioco dell’ipocrisia di quelle persone che millantano la loro bontà d’animo, la loro sensibilità e accortezza per il prossimo, sottintendendo, perciò, il loro essere superiori e migliori rispetto agli altri, quando, nel concreto, così non è.
  • “Portare scarogna”: la parola “scarogna” deriva da “scalogno” , un tipo di verdura molto povero e accessibile persino alle classi meno abbienti, perciò indicatore e metafora di miseria. L’esclamazione, riferita ad un dato interlocutore che ha espresso un concetto che potrebbe tirare a sé “Iella”, significa, infatti, “non portare sfortuna”.

scalogno

  • “Puozz’ avé mez’ora ‘e petriata dinto a nu vicolo astritto e ca nun sponta, farmacie ‘nchiuse e miedece guallaruse !“ : una vera e propria maledizione che si rivolge ad un nemico, un rivale, una persona particolarmente odiata. Significa letteralmente “Possa tu essere sottoposto a una mezz’ora di lapidazione in un vicolo stretto e cieco, che non offre possibilità di fuga, con farmacie chiuse e medici erniosi, lenti nel soccorso “.
  • “Puozze sculà” e “puozze schiattà”: una maledizione particolarmente colorita che suggerisce uno scenario piuttosto tetro, in cui si augura qualcosa che risulta essere ancora più terribile e peggiore della morte stessa. “Sculà” significa “scolare”, l’intera espressione significa, parafrasando “possa tu essere collocato, da cadavere in apposito sedile forato in basso in modo da far colare i tuoi fluidi corporei, lasciando le tue spoglie progressivamente essiccarsi e trasformarsi in una mummia “.
  • “Pure ‘e pullece tenene ‘a tosse”: questo detto risulta essere molto più diplomatico e leggero rispetto alle imprecazioni osservate poc’anzi. Letteralmente significa “anche le pulci si sentono tossire”. Spesso riferito a bambini che, non potendo neanche capire di cosa si stia effettivamente parlando, vista la loro poca esperienza nei confronti della vita, si permettono di mettere bocca su situazioni di cui non conoscono neanche il significato reale. Il detto può essere anche trasposto (in tal caso, assumendo una connotazione più grave) ad individui ritenuti “piccoli” e di poco conto, la cui opinione, quanto meno nell’ambito dell’argomento di cui si sta discutendo, non vale nulla, poiché manchevole di una preparazione o delle competenze adatte per poterla esprimere.
  • “Quanno ‘a gallina scacatea, è signo ca ha fatto ll’uovo”: di solito fa rifermento alle scuse di una persona totalmente consapevole di aver agito male, la quale cerca di redimersi per l ’ aver compiuto atti riprovevoli, smascherandosi da sola. Questa frase è utilizzata quando si concretizza una situazione spiacevole come conseguenza dell’atto commesso proprio da colui che è il primo a segnalarla. L’individuo in questione attira l’attenzione su di se esattamente come fa la gallina, che fa versi, quando depone le uova.
  • “Quanno chiove e jesce ‘o sole, tutte ‘e vecchie fanne ‘a ‘mmore, fanne ‘a ‘mmore dint’ ‘o tiano, tutte ‘e vecchie ruffiane “: si tratta di una filastrocca più che di un vero e proprio “modo di dire”. La filastrocca è una delle tante “villanelle”: canzoni profane che hanno come protagonista la stereotipo dell’anziana napoletana vista come ruffiana e maligna. Le vecchie cui fanno riferimento sono, il più delle volte, fattucchiere o streghe, le quali solevano ingannare gli innamorati tramite filtri e pozioni magiche. La traduzione letterale è “Quando piove ed esce il sole, tutte le vecchie fanno l’amore, fanno l’amore nel tiano, tutte le vecchie ruffiane “. Il “tiano” cui fa riferimento la canzone popolare, non era altro che un calderone, con uno più manici in ferro o in coccio, di cui le anziane usufruivano per poter preparare i loro intrugli. In particolar modo li preparavano quando “pioveva col sole”, considerato un avvenimento molto raro. Si era poi diffuso nel tempo un detto più bigotto e meno scabroso: “Piove col sole, la Madonna coglie un fiore, lo raccoglie per Gesù e domani non piove più “.
  • “Scarte frúscio e piglie primera!”: In questa frase vengono usati dei termini tecnici che trattano di un gioco con le carte che si svolgeva probabilmente oltre 50 anni fa nelle più comuni taverne. Il punteggio più alto era il Fruscio, cioè quattro carte dello stesso seme; poi seguiva la Primiera, la comune scopa e si valutava con lo stesso criterio. Da qui si riesce a comprendere che il detto, sostanzialmente significa, accettare una situazione per com’è, perché anche cambiando, il risultato finale sarebbe sempre lo stesso.
  • “A sciorta d’ ‘o piecuro, nasce curnuto e more scannato” si riferisce alla sorte “sciorta” particolarmente avversa e malevola nei confronti di un determinato individuo e quindi, pertanto, ad un uomo particolarmente sfortunato, che vede il susseguirsi impellente di avvenimenti spiacevoli, l’uno dietro l’altro. Il significato dell’allegoria con la “pecora” è da ricercare nel fatto che, questo animale, non solo nasce “cornuto” (questo aggettivo trasposto agli uomini allude ad una persona che è stata tradita dal proprio partner) ma muore anche “scannato” ovvero fatto a pezzi. Insomma anche la sua sorte non è delle migliori.
  • “quattro aprilante giorni quaranta“, oppure, “quattro brillanti giorni quaranta“: in entrambi i casi significa che sarebbero previsti ben 40 giorni di pioggia se dovesse piovere il 4 aprile. I primi quattro giorni del mese di Aprile erano chiamati “quattro brillanti” e annunciavano un’ottima annata proprio se erano piovosi.
  • “Se so’ rotte ‘e giarretelle”: questa particolare espressione sancisce la fine di un legame affettivo, amicizia o amore che sia. “Giarretella” deriva da “Giarra” un contenitore o brocca, di vetro o terracotta, che veniva impiegato per conservare il vino e che risulta essere, in tal caso, metafora della relazione che si è sfasciata, del rapporto che si è sgretolato, di cui ormai restano solo tanti piccoli pezzettini sparsi qua e là. Esattamente come accadrebbe alla Giarra, nel caso in cui dovesse cadere e rompersi, facendo così perdere, per sempre, il suo contenuto.
  • “Se fruscia Pintauro d”e sfugliatelle jute acito”: il detto allude ad una persona che si vanta con veemenza delle sue fantomatiche azioni, che però, nel concreto, si rivelano essere fallaci. Come Pintauro che si vantava delle sue sfogliatelle (una tipologia di dolce partenopeo, particolarmente amato per la sua fragranza ed il suo ripieno alla ricotta) “jute acito”, ovvero, andate a male e divenute stantie con la ricotta diventata acida.
  • “Sichinenza o zighinetto”: “sichinenza” un’altra parola tipica del linguaggio d’uso comune nel napoletano. Il termine descrive qualcosa di estremamente povero o mal ridotto. Una sorta di “sinonimo”, dalla pronuncia più semplice ed immediata rispetto a “sichinenza”, è “zighinetto” che però fa uno specifico riferimento alla roba “falsa” come si usa dire, sempre a Napoli e provincia, “pezzotta”.
  • “Si ‘o culo parla ‘o miedeco nun trase”: tale proverbio si utilizza per sottintendere uno stato di salute sano. Infatti, spesso, quando soffriamo di problemi intestinali, tendiamo a non recarci dal medico, perché siamo certi non si tratti di una qualche forma grave di disagio fisico per cui allarmarsi, bensì solo aria nella pancia che genera flatulenze. Il corrispettivo italiano è facilmente associabile alla celebre frase “una mela al giorno toglie il medico di torno” sebbene, in questo caso, le mele non siano proprio nominate, è automatico scorgerne un’attinenza.
  • “Pereta”: è un appellativo che delinea una figura femminile appariscente, volgare e chiassosa che cerca di farsi notare. Probabilmente riesce anche nel suo intento, ma non nel modo e nell’accezione cui auspicava. Il termine “pereta” allude, infatti, alle flatulenze e al rumore che fanno rumore nel momento in cui vengono rilasciate, attirando l’attenzione. Risulta perciò chiaro il senso ed il motivo dell’allegoria.
  • “Si nu cuoppo allesse”: espressione utilizzata dal celebre totò che definisce un individuo smidollato al cospetto della donna amata. Il “cuoppo” è un involucro di carta ripiegato in forma conica, utilizzato per contenere svariate pietanze, mentre, “allesse” fa probabilmente riferimento alle castagne che, appena bollite, si sono ammorbidite. La traduzione letterale dovrebbe perciò essere, in sostanza, “sei un cuoppo che contiene castagne bollite/lesse”.

  • “Sie nu mamozio”: espressione volta a sbeffeggiare una persona particolarmente stolta. Il termine deriva da una statua senza testa che rappresentava e doveva essere appartenuta al console romano Quinto Flavio Mesio Egnazio Lolliano Mavorzio, rinvenuta durante la ricostruzione della chiesta di San Giuseppe.Alla scultura venne integrata una nuova testa che però risultò essere sproporzionata e molto più piccola del corpo. Il risultato disarmonico che conferiva a Lolliano Mavorzio un’aria poco credibile e molto comica. Il nome del console venne così “storpiato” e venne chiamato “Mamozio”.
  • “Sarchiapone”: termine che definisce i tratti di una persona credulona, goffa, inetta e facilmente manipolabile.
  • “O spassatiempo e ‘e ciociole”: “o spassatiempo” è il classico cesto da mettere al centro del tavolo dove sono raccolte “‘e ciociole”, ovvero la frutta secca, durante i pranzi ed i cenoni, in particolar modo nel periodo natalizio. Una tavola imbandita non può mancare di questa cesta che risulta essere una vera e propria tradizione.
  • “‘A tavola d”o cucchiere, nu pirito, nu rutto e nu chitemmuorto”: “La tavola del cocchiere: una scoreggia, un rutto e una bestemmia” questa la traduzione letterale di questo famoso detto napoletano. La frase allude a quel particolare momento in cui i commensali durante quei banchetti tipici delle festività, inebriati dal vino e dai fumi dell’alcool, cominciano a lasciarsi andare mettendo da parte il galateo e la buona educazione.
  • “Te manno ê Pellerini”: espressione intrisa di rabbia, come potrà facilmente recepire il malcapitato di turno cui verrà indirizzata. Il “pellegrini” infatti è un ospedale, le intenzioni di chi pronuncia questa frase risultano, perciò, ben chiare, quella di percuotere ferocemente l’interlocutore tanto da mandarlo al pronto soccorso.
  • “Tene ‘e rrecchie ‘e pulicano”: la frase non si riferisce all’uccello pellicano, infatti sebbene questo tipo di uccello abbia una vista molto sviluppata, al contrario dell’udito, “pelicano” deriva dal termine latino “publicanum” (pubblicano). Costoro erano temuti esattori delle tasse al tempo dell’Impero Romano e avevano come unico scopo quello di scoprire beni e ricchezze sottratte al demanio pubblico e pignorarle, per farlo, spesso si abbassavano ad origliare conversazioni private. Il termine, quindi, descrive quella particolare tipologia di individui dediti a ficcare il naso e ad impicciarsi della vita altrui.
  • “Tenere la candela”: questo detto, utilizzato non solo a Napoli, bensì molto diffuso in tutta l’Italia si riferisce ad una particolare contingenza nella quale si risulta essere il fastidioso “terzo incomodo” tra una coppia di innamorati, il quale sarebbe costretto ad osservare, in solitudine, le effusioni e le smancerie di quest’ultima.
  • “Trica ca vene pesante!”: il detto di matrice partenopea allude all’importanza di avere la dote della pazienza, saper aspettare è necessario se ne vale la pena e se “il gioco vale la candela”. Non importa quanto si aspetta purché vada bene, purché ci si guadagni. “Trica” deriva dai vocaboli di origine latina
  •  “tricarum” e “triculum” che si traducono in “ impedimento” oppure “ostacolo”. Letteralmente significa letteralmente “aspetta che ne arriva una migliore “.
  • “L’uocchie sicche so’ peggio d”e scuppettate”: questa espressione viene impiegata quando capita una giornata particolarmente spiacevole, talmente tanto sfortunata dal portarci a considerare l’eventualità che qualcuno possa averci messo “gli occhi addosso”. Gli “uocchie sicche” sarebbero il malocchio, posseduto da colui che guardando negli occhi dell’altro esercita un influsso malefico al fine di danneggiarlo. La traduzione letterale è infatti “il malocchio è peggio dei colpi di fucile”, alludendo al fatto che la negatività maligna e l’invidia della gente, spesso, possa fare danni più significativi dei proiettili di un fucile.
  • “L’urdemo lampione ‘e Forerotta”: è uno dei modi di dire, ad oggi poco conosciuto, che si usava per parlare di una persona che non aveva voce in capitolo. Si faceva riferimento all’ultimo lampione che vi era a Fuorigrotta all’epoca della pubblica illuminazione a gas, denominato 6666, numero che per la Smorfia napoletana significa quattro volte scemo.
  • “Uosemo”: deriva dalla parola “osmòs”, che significa “odore”, o, più precisamente, dal verbo “osmao” che significa “odorare” in greco. L’espressione “E’ gghiut’ ‘a uosemo” allude ad una persona che si è lasciata guidare dall’istinto.
  • “Va’ a vasà ‘o pesce ‘e San Rafèle”: si riferisce alle ragazze con l’intento di un buon augurio, nonostante sia cristallino il riferimento a sfondo sessuale. La chiesa di Materdei è testimone da secoli di un rito popolare non molto conosciuto e legato alla storia di Tobia e San Raffaele. Nel libro di Tobia si racconta dell’avventura di quest’uomo che dà il nome al libro, in cui durante la sua sosta presso il fiume Tigri, viene assalito da un pesce. Qui l’arcangelo Raffaele, che lo accompagnava durante il viaggio, sprona Tobia a non scappare e a afferrare il pesce per la testa. Così il giovane riesce a sconfiggere l’animale e sempre su consiglio dell’angelo, estrae dal pesce il fiele, il cuore e il fegato. Giunto ad Ecbatana, sposa Sara, la sua amata.  Era usanza tipica, per quelle persone sterili o in età da marito, quella di baciare “il pesce” di un santo contenuto in una cesta. Sempre evidente è la coesistenza di elementi “sacri e profani” .
  • “Va truvanno sce’ sce’”: utilizzato per delineare il ritratto di una persona poco affidabile, che cerca sempre scuse poco credibili volte a giustificarsi. Oppure una persona sempre in cerca del pelo nell’uovo per poter alimentare dissapori, in soldoni, una persona in cerca “di rogne”. “scè scè” deriva dal francese “chercher”, che significa cercare.
  • “Voce ‘e popolo, voce e’ Dio”: un proverbio molto antico che definisce la supremazia popolare: se il volgo stabilisce che un pettegolezzo divenuto di dominio pubblico corrisponde a verità, allora, effettivamente lo è. Si utilizza per indicare, pertanto, qualcosa su cui si è certamente sicuri di cui non si ha il minimo dubbio a riguardo.

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