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Da eroe dello Stato a carnefice, la vera storia di Mario Vece

È di ieri la notizia dell’arresto degli attentatori di Capodanno a Firenze, della giustizia fatta per quel povero artificiere, Mario Vece, che nel tentativo di disinnescare la bomba perse una mano e un occhio ricevendo, poi, una medaglia al valore da parte del Capo dello Stato e rischiando di doversi pagare le spese mediche da solo.

Oggi, però, spuntano nuove informazioni riguardo il passato dell’artificiere, dell’eroe Mario Vece: nuove informazioni che potrebbero cambiare l’intera percezione che abbiamo della situazione.

Riportiamo integralmente il pezzo pubblicato da ilsitodifirenze, che svela particolari sulla carriera professionale di Vece.


All’alba del primo giorno del duemiladiciassette,Firenze si sveglia con la notizia di un ordigno che ha ferito, e gravemente, un poliziotto.

Un servitore dello Stato. Ha perso una mano e un occhio, una vita mutata nel giro di qualche ora.

L’ospedale. La disperazione. Il ministro. Il capo della Polizia.

Lo Stato presente al fianco dei suoi uomini.

E poi i gesti di solidarietà dei colleghi, la rabbia della famiglia. Tutti al posto giusto in una storia fin troppo ingiusta. Dove in mezzo passa anche la sfortuna di un destino crudele.

«Spero di tornare a fare il mio mestiere» ha detto l’agente al chirurgo che gli stava per amputare la mano.

Ma guarda te, se per poco più di mille euro al mese, la notte di Capodanno, un uomo deve perdere una mano e un occhio, per colpa di una bomba messa per ragioni di lotta politica?

E siamo nel 2016. Assurdità. Follie.

Eppure quest’uomo è senza la mano sinistra e non si sa se ci vedrà mai più dall’occhio esploso con la bomba. Non c’è ragione che sia accaduto questo, ma la vita purtroppo riserva situazioni incredibili e imprevedibili. Ed il sovrintendente Mario Vece lo sa. Come quando, in un attimo, ti ritrovi vittima dopo che sei stato carnefice.

Povero Mario Vece. Eh sì, povero Mario Vece. Poveri, però, anche quei quattro ragazzi che nel 2001 finirono pestati sotto le sue mani e di quelle di suoi due colleghi.

Una storiaccia, brutta, brutta. Di quelle destinate ad essere dimenticate in fretta.

Un battibecco all’entrata di una discoteca a Pistoia, poliziotti che intervengono e portano quattro ragazzi in questura. Lì vengono scambiati per cittadini albanesi e per questo motivo insultati e picchiati. Lo dicono anche i referti dell’ospedale dove ad uno dei quattro giovani verrà riscontrato il timpano sfondato, il setto nasale incrinato e un testicolo tumefatto.

Per gli altri contusioni, trauma cranici e lesioni varie su più parti del corpo.

E all’epoca, per questi fatti, finirono agli arresti domiciliari l’ispettore Paolo Pieri, il vice sovrintendente Stefano Rufino e anche l’allora assistente Mario Vece, tutti accusati di lesioni gravi, falso e calunnie, perché falsificarono anche i verbali.

Una storia brutta poi finita con un patteggiamento a 14 mesi per Vece (condannati anche i colleghi), la sospensione dal servizio, il successivo trasferimento a Montecatini, poi a Pisa e infine a Firenze, come artificiere.

E per citare le parole di 16 anni fa dell’allora presidente della Regione Toscana Claudio Martini: “se tra i giovani che hanno subito quel pestaggio non ci fosse stato il figlio di un sottosegretario l’episodio non sarebbe mai venuto a galla”.

Eh sì, perché Vece e i suoi colleghi pestarono di botte il figlio dell’allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Vannino Chiti.

Vece oltre a picchiare quei ragazzi era accusato, e ha patteggiato la pena, di aver falsificato i verbali di quella storia.

Oggi, è giusto provare compassione e anche commozione per questo poliziotto ferito. Sono sentimenti ed emozioni a cui la natura umana cede e di cui sente il bisogno, quasi come per sapersi persone migliori.

Viviamo una società portata a giudicare tutto, che si esprime con un like, in maniera netta. Viviamo in una società capace di farsi incantare. Ma attenzione a celebrare nuovi eroi. Mario Vece non lo era e non lo è diventato dopo quella bomba. Oggi, è giusto celebrare il caro prezzo di quello che significa portare una divisa, ma può anche essere l’occasione per ricordare di non abusarne mai.


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