Il procuratore generale di Palermo ha chiesto di condannare l’ex ministro democristiano Calogero Mannino a 9 anni di carcere, ribaltando la sentenza di assoluzione emessa in primo grado nell’ambito del processo sulla trattativa tra Stato e Mafia: “Le acquisizioni probatorie confermano il timore dell’onorevole di essere ucciso, così come sostenuto dall’accusa, e le sue azioni per attivare un ‘turpe do ut des’ per stoppare la strategia stragista avviata da Cosa nostra”.
Stato-Mafia, chiesti 9 anni per l’ex ministro Mannino
“Condannate Calogero Mannino a 9 anni di carcere”. È questa la richiesta avanzata dal procuratore generale di Palermo, Sergio Barbiera, nei confronti dell’ex ministro della Democrazia Cristiana nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia. Barbiera, insieme al collega Giuseppe Fici, rappresenta l’accusa nel processo d’appello e chiede di ribaltare l’assoluzione del primo grado, in rito abbreviato, e di condannare il politico per il reato di minaccia a corpo politico dello Stato. “Le acquisizioni probatorie – scrive il pg – confermano inoppugnabilmente il timore dell’onorevole Calogero Mannino di essere ucciso, così come sostenuto dall’accusa, e le sue azioni per attivare un ‘turpe do ut des‘ per stoppare la strategia stragista avviata da Cosa nostra”.
Le dichiarazioni del pentito Brusca
Barbiera ripete, inoltre, le dichiarazioni del pentito Giovanni Brusca, già emerse nel corso del processo di primo grado. Secondo l’ex boss, subito dopo l’attentato di Capaci, nel quale perse la vita il giudice Giovanni Falcone insieme alla moglie e agli uomini della scorta, ricevette l’ordine di uccidere proprio Mannino. Fatto, questo, confermato anche dall’ex capo mandamento Antonino Giuffrè, vicino al boss Provenzano, che ha detto che: “Falcone, Lima e Mannino erano nella lista delle persone da uccidere.
Lista deliberata dalla riunione della commissione provinciale di Cosa nostra, riunitasi nel dicembre 1991. Decisione da adottare in caso di esito sfavorevole della sentenza del maxi processo da parte della Cassazione”. Secondo la ricostruzione dell’accusa, Mannino, sentendosi nel mirino dei mafiosi, dopo aver subito varie minacce e intimidazioni, avrebbe attivato i carabinieri per fermare le stragi. Dunque, sostiene la procura generale, sarebbe stato il motore della trattativa Stato-mafia, colui che in ultima analisi l’avrebbe avviata.
Mannino, che ha scelto il rito abbreviato ed è giudicato separatamente rispetto agli altri imputati, era stato assolto in primo grado nel 2015. “Non c’è qualcosa, come delle fonti orali o documentali che dimostrino il collegamento tra l’iniziativa dei Ros di interloquire con Vito Ciancimino e l’evento ipotizzato dall’accusa di un accordo tra Mannino e Cosa nostra, per salvarsi e attuare un programma politico favorevole a una trattativa, volta a condizionare, partecipando alla volontà ricattatoria stagista della mafia, le scelte del Governo”, scrisse il gup Marina Petruzzella nelle motivazioni di quella sentenza depositate il 31 ottobre 2016. Due anni dopo, nel maggio del 2017, è cominciato il processo d’appello.
Il processo di secondo grado
La scorsa settimana, davanti alla corte d’assise d’appello di Palermo, è invece cominciato il processo di secondo grado agli altri imputati della trattativa, tra cui ex ufficiali del Ros come Mario Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno, i boss Leoluca Bagarella e Antonio Cinà, Massimo Ciancimino e Marcello Dell’Utri, tutti condannati, al contrario di Mannino, a pene pesantissime. La parola passa ora alle parti civili e alla difesa dell’ex ministro. La sentenza dovrebbe essere emessa entro l’inizio dell’estate.