Via ai test sull’uomo per il vaccino coronavirus. Lo rivela un funzionario dei National Institutes of Health (Nih), finanziatori dello studio sul Covid-19 che si sta svolgendo presso il Kaiser Permanente Washington Health Research Institute di Seattle.
Coronavirus, partono i test sull’uomo per trovare la cura
I test inizieranno su 45 giovani volontari sani con diverse dosi sviluppati congiuntamente da Nih e la startup biotech del Massachusetts, Moderna. Il vaccino, come si legge nel comunicato dell’azienda, si chiama mRna-1273. L’obiettivo è puramente quello di verificare che il vaccino non mostri effetti collaterali di rilievo, ponendo le basi per ampliare i test . Se tutto andasse liscio si tratterebbe di un record assoluto: 3-4 mesi per lo sviluppo e l’applicazione di un nuovo vaccino (nel caso della Sars il vaccino fu sviluppato in 20 mesi).
Ci vorranno da un anno a 18 mesi
I funzionari della sanità pubblica americana ribadiscono comunque che ci vorranno da un anno a 18 mesi per convalidare qualsiasi potenziale vaccino. Mentre i casi di Covid-19 continuano ad aumentare, si allunga la lista delle società che stanno febbrilmente lavorando alla ricerca di un vaccino.
E la ricerca contro il coronavirus utilizza approcci diversi, compresi quelli più moderni e meno testati chiamati vaccini “plug and play”. Dal momento che si conosce il codice genetico di Sars-CoV-2 è infatti possibile ricostruirlo, senza usare l’originale. Così alcuni scienziati stanno selezionando piccole sezioni del codice genetico del coronavirus e lo stanno inserendo in altri virus completamente innocui. Altri gruppi stanno usando frammenti di codice genetico grezzo (Dna o Rna a seconda dell’approccio) che, una volta iniettati, dovrebbero iniziare a produrre frammenti di proteine virali che il sistema immunitario può imparare a combattere.
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Oltre a Moderna Pharmaceuticals -che utilizza il complesso proteico S (proteina virale Spike S), come i vaccini codificati contro i coronavirus responsabili della sindrome respiratoria mediorientale (Mers) e della sindrome respiratoria acuta grave (Sars) – anche Inovio Pharmaceuticals nella sua sede di San Diego ha già iniziato i test preclinici e la produzione su piccola scala di un vaccino a base di Dna. La società prevede di iniziare gli studi clinici negli Usa, in Cina e in Corea del Sud ad aprile per un totale di 3.000 dosi e di aspettarsi i primi risultati in autunno. L’obiettivo è di avere 1 milione di vaccini pronti per ulteriori studi clinici o di emergenza entro la fine dell’anno.
In campo c’è anche l’Università australiana del Queensland (che come le due società americane è finanziata dal Cepi, Coalition for epidemic preparedness innovations), e dallo scorso 27 febbraio anche gli scienziati israeliani dell’Istituto di ricerca Migal hanno dichiarato di essere pronti a produrre un vaccino orale nelle prossime 8-10 settimene appena ottenuta l’approvazione sulla sicurezza (entro 90 giorni). E poi, in ordine sparso su tempi e terapie/vaccini ci sono le multinazionali del farmaco come Gsk, J&J, Sanofi e Takeda, e le biotech Regeneron Pharmaceuticals e Vir Biotechnology.
La biologia sintetica
Ma chi scommette che gli scienziati possano fare ancora meglio di quello che oggi è in dirittura d’arrivo sono la Bill e Melinda Gates Foundation e il National Institutes of Health americano. Se, come sembra, anzichè scomparire come la Sars, il virus Covid-19 diventasse una parte permanente del serraglio microbico mondiale, sarà necessario un approccio nuovo, una sorta di piattaforma modulabile da utilizzare anche per eventuali future pandemie.
Come dice Neil King, un ricercatore dell’Università di Washington “sapevamo che ci sarebbe stata un’altra epidemia di coronavirus”, dopo Sars e Mers “e ce ne sarà un’altra dopo”, che potrebbe emergere sempre da questa famiglia di virus. “Abbiamo bisogno di un vaccino contro il coronavirus universale”. La speranza è nella biologia sintetica per assemblare virtualmente potenziali vaccini in maniera più rapida e capace di rispondere alle mutazioni virali. A questo scopo i ricercatori attraverso il computer stanno progettando nuove nanoparticelle proteiche autoassemblanti “tempestate” di antigeni. Se i test sugli animali con il primo vaccino a nanoparticelle saranno indicativi, potrebbe essere più potente dei vaccini virali vecchio stile come quelli per l’influenza.
Le proteine come i Lego
Utilizzando un algoritmo di progettazione proteica, gli scienziati potrebbero infatti determinare che, per esempio, una nanoparticella di 25 nanometri di diametro e composta da 60 pezzi identici è l’ideale per indurre l’immunità (il sistema immunitario umano si è evoluto per interpretare le disposizioni ripetitive delle molecole come un segno di pericolo).
Rendere le nanoparticelle il nucleo di un vaccino ha anche una serie di vantaggi: riduce o elimina la necessità di un adiuvante (ingrediente che aumenta la risposta immunitaria) perchè la nanoparticella è sufficiente da sola; l’attacco degli antigeni su questo substrato rende l’intero complesso così tollerante al calore che non necessita di refrigerazione (caratteristica cruciale per i vaccini da distribuire nei paesi poveri); la nanoparticella può essere costellata da antigeni di diversi virus che si potrebbe addirittura ottenere un vaccino contro il “pan-coronavirus”.